— Crì-crì-crì! — Chi è che mi chiama? — Sono io! — Dimmi, Grillo: e tu chi sei? — Io sono il Grillo-parlante, ed abito in questa stanza da più di cent’anni. — Oggi però questa stanza è mia, e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro. — Io non me ne anderò di qui, se prima non ti avrò detto una gran verità. — Dimmela e spìcciati. — Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna! Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente. — Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola e per amore o per forza mi toccherà studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido. — Povero grullerello! Ma non sai che, facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te? — Chétati. Grillaccio del mal’augurio! — E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane? — Vuoi che te lo dica? Fra tutti i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo, che veramente mi vada a genio. — E questo mestiere sarebbe?… — Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo. — Per tua regola, tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono sempre allo spedale o in prigione. — Bada, Grillaccio del mal’augurio!… se mi monta la bizza, guai a te! — Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!… — Perché ti faccio compassione? — Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno. |
martedì 29 dicembre 2009
Pinocchio
Etichette:
Carmelo Bene,
Grillo parlante,
Pinocchio
domenica 29 novembre 2009
Petrarchesca
Tempo verrà che forse |
Se la carne immane more
Se la carne immane more
del non so perché t'adiri
'me che di bambole s'ingombra
il tempo che non sai.
'me che dei tuoi riderai
non ti sarà albergo, placentata
istoria, scolpita come fosse polver d'ossa,
scarnificate... una miseria.
M'hai colmato i giorni di sospiri, tu
che raccolta dannata a' rimpianti celi
e non m'occorre 'l tempo che al vuoto
mi precipita. S'alza in alto ancora
come nuvola un gemito dal suo giacere in gola,
sì, ma in quali strali espanso al ridere mi proibì
non so, che di me non sai più che t'inventare.
E se m'hai cercato in morte le tue labbra,
avvinte, soltanto perdersi di lor parole.
S'alberga al cuore un ombra; cara, se'
germana, inusitata speme, giovenile ardore.
Sei tu un ricordo solo
che all'appressar m'aucidi.
Di', ché m'abbandoni e te ne vai
'me la mi vita che più non abbonda
e che tende mani in supplichevol pièta
all'esile promessa di quel volo.
Senz'ali cadere giù e d'isfracellarsi
sente già l'appressarsi, sulla soglia
impietra, vittima in tramutarsi oro, in altro
o fors' è soltanto abbaglio sotto 'l sole;
d'ira, lussuria, febbre, ebrezza, cui Icaro
figlio luminoso si travaglia
spaura e maraviglia nell'attesa.
Di quel volo ignaro ciò che un giorno t'era
ormai se' diventato già soltanto sera. il cannocchiale |
Me di che parli tu
Me di che parli tu |
C'est triste mon amour
C'est triste mon amour |
Stile lapidario
Il marmo su cui incido un nome, |
Il vento batte forte
Il vento batte forte |
giovedì 26 novembre 2009
GIOVINEZZA II
Sei tu eterna giovinezza; allegra vai e non ti fermi mai, né per parlarmi appena un poco. Non dovrò allarmarmi se di mia aborrita vecchiezza farai un rogo che i vili affanni incendierai. Mi vieni spesso in sogno evanescente, senza tormenti, dolce e 'sì suadente. Va, Corri, Vola, che guai non hai e lai. Portami ancor là dove splende il sole, là dov'è luce dà conforto ognora e chiaramente renderai quest'ora immortale. Poi del 'verno la mole tua imbiancherà di tener fresca neve. Si scioglierà quel nodo oscuro... lieve. |
SUITES
I E tutto il tuo splendore mutò in fiamma e 'n gelo, 'sì che invano m'affanna la catena a cui anelo. Già incedo, senza sguardo, cercando un volto, perso, tra specchi, diverso, sconosciuto; e non m'appare sbiadita se non imago, bianca, le cui lettere incido come segni inestinguibilmente assenti di mistero. III Cos'è che rendon vaghe di parole le pagine mai scritte? Mai l'ultima sillaba osa svelarsi al di là del bianco. Déttami fiumi e mari, monti e valli. E ancora altro bianco s'assomma. L'inchiostro troppo spesso l'ingenuo candor macchia sbiadendosi il non detto. IV Al crocevia son giunto ferito, esausto, senza le rose sanguinanti che coronavan spine. Sale al mare... Padre. Acqua alla terra... Madre Terra alla terra... Assenza. Sole e notte soltanto. Non mai luce d'amore disvelò l'asprezza in me, la cui forma s'effigia nel freddo ghiaccio scultoreo che presto diverrà (venale 'ngegno d'opra) sogno e abbandono, inerte, che suol mutarsi in pietra. VII Di dirti cose liete o ebrezze non ho stasera ormai più voglia. Un altro giorno mi rimane (fosse sol vano il tuo ricordo!) di ciò che persi o in te acquistai, vittima anch'io dei desideri. Tu non cedi a lusinghe; non sai darti arie strane. Vaneggio, rosa secca che mi spezzi, son folle... Gioie queste?... Più non volle Dio che fedele restassi; eppure fede prestai in cambio di promesse; conforto ebbi ancora; e te e me, coinvolti in intrighi, illusioni. Poi scrivo solo il nome che mi resta: abbandono. Poesia. X Dell'Inverno rimase il suo biancore; di te: dolcezza, odore. Triste mondo pallido bagnato di rugiada che alacre d'usignuoli l'alba fai! Da richiamo incantato lor, insonne, fui rapito. Si, tu vieni solitaria, pur vicina siedi, sempre distante. Toccami, ch'io non senta l'inutile distanza, ma il tuo respiro, solo, una lieve fresca brezza, di non sapere ('sì chiara mi guardi!) che t'ho perduta un giorno... Eternità. |
Mimesi
|
sabato 21 novembre 2009
Acrostico
Giordano Bruno Giorno dopo giorno ti sei fatto una fama, Intanto già tramava là il tuo fido amico Offrendo a caro prezzo alloggio, il Mocenigo; Riuscendo, chi come Giuda il suo signore ama, Di farti poi inquisir da quel tribunal santo, Ancorché di santo esso avesse solo il nome. Non volesti poi cambiar, non sapevi come; Osar di rinnegar non era il tuo ver vanto. Bruciasti nell'ann' del signor milleseicento Rinunciando alla loro vil proposta oscena. Un dì al Campo de' Fior val ben più della pena, Nel qual fuoco apparve intatto il tuo portento. Ormai solo cenere di te resta... al vento. |
Après soi, le déluge
Dopo aver letto e riletto "'L mal de' fiori" di Carmelo Bene, credo proprio non si possa leggere niente più, né Alda Merini, né tantomeno quel bel morto che è Mario Luzi. È un caso umano, non certo poetico. I media né hanno fatto un pizza di questa esperienza dolorosa psichiatrica, dei suoi trascorsi. ecc... Un caso umano, appunto... Che c'entra la poesia? Lo Stato l'ha rinchiusa in manicomio e lo Stato l'ha rendenta, l'ha fatta diventare un caso letterario. Ho letto diverse poesie di Alda Merini, ma noto che hanno sempre questo vincolo asfissiante del privato, dell'esperienza che si vuole comunicare a tutti costi (a costo di evitare la poesia stessa); non è mai tentata dalla follia, dal trasgredire le regole, impelagata com'è a discorrere con il suo vissuto. Non è una vera "pazza" come poteva esserlo Dino Campana o l'inarrivabile Carmelo Bene. E sì!... Con C.B. si è fatto fuori il corpo e le sens'azioni corporee, si è eliminato lo spirito, si è dato scacco alla stessa anima che credeva di salvarsi per chissà quale virtù oltrerrena... E animella deliciola ch'è callida 'n evitar di struggersi 'n padella svolazza affior d'altrove vispa più della Teresa... E noi invece stiamo qui ancora a imbelletare i cadaveri della letteratura. il cannocchiale |
Etichette:
'L mal de' fiori,
Alda Merini,
Carmelo Bene,
Mario Luzi,
psichiatria
Cava (Versione Celeste, Juan Larrea)
Dinamite in fiore dinamite d'orologio carne mia cara dinamite Istinto origine d'alba e di locanda l'atmosfera cade in ginocchio di neve ed è facile come imparare a leggere il segno esteriore intrecciato con ghirlande di foglie Dinamite d'orologio carne mia cara dinamite Ascolta gli istanti che giungono sui loro ciuchi segreti Cava (Versione Celeste, Juan Larrea) |
Poesia dell'autore
El crimen fue en Granada (Antonio Machado)
I EL CRIMEN Se le vio, caminando entre fusiles, por una calle larga, salir al campo frío, aún con estrellas, de la madrugada. Mataron a Federico cuando la luz asomaba. El pelotón de verdugos no osó mirarle la cara. Todos cerraron los ojos; rezaron: ¡ni Dios te salva! Muerto cayó Federico -sangre en la frente y plomo en las entrañas-. ...Que fue en Granada el crimen sabed -¡pobre Granada-, en su Granada... II EL POETA Y LA MUERTE Se le vio caminar sólo con Ella, sin miedo a su guadaña. -Ya el sol en torre y torre; los martillos en yunque y yunque de las fraguas. Hablaba Federico, requebrando a la muerte. Ella escuchaba. "Porque ayer en mi verso, compañera, sonaba el golpe de tus secas palmas, y diste el hielo a mi cantar, y el filo a mi tragedia de tu hoz de plata, te cantaré la carne que no tienes, los ojos que te faltan, tus cabellos que el viento sacudía, los rojos labios donde te besaban... Hoy como ayer, gitana, muerte mía, qué bien contigo a solas, por estos aires de Granada, ¡mi Granada!" III Se le vio caminar... Labrad amigos, de piedra y sueño, en la Alhambra, un túmulo al poeta, sobre una fuente donde llore el agua, y eternamente diga: el crimen fue en Granada, ¡en su Granada! (Antonio Machado, El crimen fue en Granada) |
Etichette:
Antonio Machado,
Federico García Lorca,
poesia
Da 'l mal de' fiori (Carmelo Bene)
Voce mia tua chissà chiamare questo Mia tua chissà la voce che chiamare ventilato è suonar che ne discorre in che pensar diciamo e siamo detti vani smarriti soffi rauchi versi prescritti da un voler che non si sa disvoluto e alla mano intima incisi segni qui divertiti disattesi sensi descritti testi d'altri che morti fiati dimentichi 'n mia tua chissà la voce Noi non ci apparteniamo È il mal de' fiori Tutto sfiorisce in questo andar ch'è star inavvenir Nel sogno che non sai che ti sognare tutto è passato senza incominciare 'me in quest'andar ch'è stato. (Carmelo Bene, 'L mal de' fiori) |
Milano, agosto 1943 (Salvatore Quasimodo)
Invano cerchi tra la polvere povera mano, la città è morta. È morta: s'è udito l'ultimo rombo sul cuore del naviglio. E l'usignolo è caduto dall'antenna, alta sul convento, dove cantava prima del tramonto. Non scavate pozzi nei cortili: i vivi non hanno più sete. Non toccate i morti, così rossi, così gonfi: lasciateli nella terra delle loro case: la città è morta, è morta. Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano |
Assedio di Adrianopoli (da Zang tumb tumb, Filippo Tommaso Marinetti)
ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare spazio con un accordo tam-tuuumb ammutinamento di 500 echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all´infinito nel centro di quei tam-tuuumb spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati) balzare scoppi tagli pugni batterie tiro rapido violenza ferocia regolarita questo basso grave scandere gli strani folli agitatissimi acuti della battaglia furia affanno orecchie occhi narici aperti attenti forza che gioia vedere udire fiutare tutto tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato sotto morsi shiafffffi traak-traak frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie salti altezza 200 m. della fucileria Giù giù in fondo all'orchestra stagni diguazzare buoi buffali pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack ilari nitriti iiiiiii... scalpiccii tintinnii 3 battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac [ LENTO DUE TEMPI ] Sciumi Maritza o Karvavena croooc-craaac grida delgli ufficiali sbataccccchiare come piatttti d'otttttone pan di qua paack di là cing buuum cing ciak [ PRESTO ] ciaciaciaciaciaak su giù là là intorno in alto attenzione sulla testa ciaack bello Vampe vampe vampe vampe vampe vampe vampe (ribalta dei forti) vampe vampe dietro quel fumo Sciukri Pascià comunica telefonicamente con 27 forti in turco in te desco allò Ibrahim Rudolf allò allò Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano |
L'infinito (Canti, Giacomo Leopardi)
Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare. Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano |
Cobò (Aldo Palazzeschi)
Chicchicchirichi!... Chicchicchirichi!... "Ecco il dì". Cantano i galli di Cobò. Il vecchio Cobò è sul suo letto che muore fra poche ore. Povero Cobò! Povero Cobò! Ciangottano i pappagalli. Addio Cobò! Addio Cobò! E le galline: cocococococococodè: "oggi è per te" cocococococococodè: "Cobò tocca a te". Le tortore piene di malinconia si sono radunate in un cantuccio: glu... glu... glu... "non ti vedremo più". I cani si aggirano mesti con la coda ciondoloni, mugolando: bau... bau... baubaubò: "addio papà Cobò". E i gatti miagolando: gnai... gnai... gnai... fufù "Mai... mai... mai più". E le cornacchie: gre gre gre gre "anche a te, anche a te". Fissando il capezzale la civetta veglia e aspetta. Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano |
Iscriviti a:
Post (Atom)