martedì 29 dicembre 2009

Pinocchio



— Crì-crì-crì!

— Chi è che mi chiama?

— Sono io!

— Dimmi, Grillo: e tu chi sei?

— Io sono il Grillo-parlante, ed abito in questa stanza da più di cent’anni.

— Oggi però questa stanza è mia, e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.

— Io non me ne anderò di qui, se prima non ti avrò detto una gran verità.

— Dimmela e spìcciati.

— Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna! Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.

— Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola e per amore o per forza mi toccherà studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.

— Povero grullerello! Ma non sai che, facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te?

— Chétati. Grillaccio del mal’augurio!

— E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?

— Vuoi che te lo dica? Fra tutti i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo, che veramente mi vada a genio.

— E questo mestiere sarebbe?…

— Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.

— Per tua regola, tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono sempre allo spedale o in prigione.

— Bada, Grillaccio del mal’augurio!… se mi monta la bizza, guai a te!

— Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…

— Perché ti faccio compassione?

— Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno.

domenica 29 novembre 2009

Petrarchesca

     Tempo verrà che forse
ben ne uscirò io vivo
da questo sortilegio
che 'l core tutto morse,
né mi lasciò giulivo
ma affanno e vil dispregio.
Com' dolce gran bel fregio
mostravansi d'attorno
ruscelli e vaghi augelli,
e di fior tra i più belli,
nell'aere. Quel lucente e novo giorno
mi coverse di sogni leggiadria.
Restai muto e solitario in tra la via.

Il sole sovrastava a noi la testa
e il mite sembiante agli occhi spinse
d'amore e gioia a ricovrirne un manto.
Ali ai vaghi pensier novelli desta
e non so come e quando mi si 'stinse
in ora così presta il dolce canto.
Perdut'è 'l trepido calor, l'incanto,
ed erro per selve com'om cercando
un simulacro suo d'imago o voce
simulando poi dir che: "non è croce!"
fingendo il tutto van ma vo pregando
e cado a terra e immane dolor verso
e ciò che ver nella vita c'è ho perso.

Poi chieggio a Dio la luce che mi guidi
'sì che mi desti al dolce porto quiete.
"Vani discorsi te n' vai teco ansando!..."
'sì mi parla voce (sembra non m'arridi!)
"Signor del ciel, che il tutto sai e 'l potete,
nascondimi ve n' prego al tuo bel canto"
Tutt'è vano di ciò che un dì fu vanto!
Un rivo amaro mi sorge sul ciglio
e fremo e non so più dove io mi sia
e grido senza voce, spento, muto.
Che rimarrà?... in te più non m'appiglio;
fuggendo in nessun loco trovo pace
e il sonno vince e placa e tutto tace.


Se la carne immane more

     Se la carne immane more
del non so perché t'adiri
'me che di bambole s'ingombra
il tempo che non sai.

'me che dei tuoi riderai
non ti sarà albergo, placentata
istoria, scolpita come fosse polver d'ossa,
scarnificate... una miseria.

M'hai colmato i giorni di sospiri, tu
che raccolta dannata a' rimpianti celi
e non m'occorre 'l tempo che al vuoto
mi precipita. S'alza in alto ancora
come nuvola un gemito dal suo giacere in gola,
sì, ma in quali strali espanso al ridere mi proibì
non so, che di me non sai più che t'inventare.
E se m'hai cercato in morte le tue labbra,
avvinte, soltanto perdersi di lor parole.

S'alberga al cuore un ombra; cara, se'
germana, inusitata speme, giovenile ardore.
Sei tu un ricordo solo
che all'appressar m'aucidi.
Di', ché m'abbandoni e te ne vai
'me la mi vita che più non abbonda
e che tende mani in supplichevol pièta 
all'esile promessa di quel volo.
Senz'ali cadere giù e d'isfracellarsi
sente già l'appressarsi, sulla soglia
impietra, vittima in tramutarsi oro, in altro
o fors' è soltanto abbaglio sotto 'l sole; 
d'ira, lussuria, febbre, ebrezza, cui Icaro
figlio luminoso si travaglia
spaura e maraviglia nell'attesa.
Di quel volo ignaro ciò che un giorno t'era
ormai se' diventato già soltanto sera.

il cannocchiale

Me di che parli tu

    Me di che parli tu
- stolida vena -
in-scena miei versi morti
flebili voli inietta.

L'estremo in cui si fingono
persuase ed oscure le pietre
che si adoprano in sepoltura.

Madame sta lì, ferma,
instolidita ed inerme,
il soprabito che indossa
dei vermi. Come s'affanna
il cui corpo reclama la pace
di cui cibo soltanto
è fatta l'apparenza.

C'est triste mon amour

    C'est triste mon amour
per le periferie perdute,
andirivieni di storie,
sbiadite, un passpartout
de nôtre jeune fille
.
Il me semble e tu 
che ancora biasimi
le stesse sere identiche
e gli occhi neri ritagliati 
in un vaso irrorato
da forbice che non trema.
L'autunno risuona, sale,
cristalli giù al mare, le scale;
poi sotto il sole, il sudario 
della pelle bruciata dal sale... 
Più niente da decifrare.
Intirizzita e noi tumefatti
da parole, svuotati,
ilari s-parliamo il nostro di-scorso 
ancora una volta, assorti 
in fragile spasimo inquietante.


Stile lapidario

    Il marmo su cui incido un nome,
forse troppo poco importante,
si chiama ricordo.
Niente più mi lega a te
se non un sogno infranto.

"Qui giace e non si da pace
un grande: un artista vilipeso,
oltraggiato oltre misura,
(come è oramai da tempo usanza)
reso troppo, troppo piccolo
dai nani della mediocrità borghese"

E qui, di seguito, allego un canto.


Il vento batte forte

    Il vento batte forte
ne ho preso poi di botte,
le charme mon dieu,
jamais je fuis.
Così per incongruenza
mi so’ ispirato.

Mon amour, je suis moi;
tu es mon esprit.
Ode senz’odio e après:
le ciel est bleu.

Le charme est ici, ici, ici...
le façon c’est compris.
Labile come un sogno
io mi son reinventato.

Tu es moi.


giovedì 26 novembre 2009

GIOVINEZZA II

    Sei tu eterna giovinezza; allegra vai
    e non ti fermi mai, né per parlarmi
    appena un poco. Non dovrò allarmarmi
    se di mia aborrita vecchiezza farai

    un rogo che i vili affanni incendierai.
    Mi vieni spesso in sogno evanescente,
    senza tormenti, dolce e 'sì suadente.
    Va, Corri, Vola, che guai non hai e lai.

    Portami ancor là dove splende il sole,
    là dov'è luce dà conforto ognora
    e chiaramente renderai quest'ora

    immortale. Poi del 'verno la mole 
    tua imbiancherà di tener fresca neve.
    Si scioglierà quel nodo oscuro... lieve.


SUITES

I

   E tutto il tuo splendore
mutò in fiamma e 'n gelo,
'sì che invano m'affanna 
la catena a cui anelo.
Già incedo, senza sguardo,
cercando un volto, perso,
tra specchi, diverso,
sconosciuto; e non m'appare
sbiadita se non imago,
bianca, le cui lettere
incido come segni
inestinguibilmente
assenti di mistero.


III

   Cos'è che rendon vaghe
di parole le pagine
mai scritte? Mai l'ultima
sillaba osa svelarsi
al di là del bianco.
Déttami fiumi e mari,
monti e valli. E ancora
altro bianco s'assomma.

L'inchiostro troppo spesso
l'ingenuo candor macchia
sbiadendosi il non detto.

IV

   Al crocevia son giunto
ferito, esausto, senza
le rose sanguinanti
che coronavan spine.

Sale al mare... Padre.
Acqua alla terra... Madre
Terra alla terra... Assenza.

Sole e notte soltanto.
Non mai luce d'amore
disvelò l'asprezza in me,
la cui forma s'effigia
nel freddo ghiaccio scultoreo
che presto diverrà
(venale 'ngegno d'opra)
sogno e abbandono, inerte,
che suol mutarsi in pietra.

 
VII

   Di dirti cose liete o ebrezze
non ho stasera ormai più voglia.
Un altro giorno mi rimane
(fosse sol vano il tuo ricordo!)
di ciò che persi o in te acquistai,
vittima anch'io dei desideri.

Tu non cedi a lusinghe;
non sai darti arie strane.
Vaneggio, rosa secca
che mi spezzi, son folle...
Gioie queste?... Più non volle 
Dio che fedele restassi; 
eppure fede prestai
in cambio di promesse;
conforto ebbi ancora; e te
e me, coinvolti in intrighi, 
illusioni. Poi scrivo 
solo il nome che mi resta:
abbandono. Poesia.


X

   Dell'Inverno rimase il suo biancore;
di te: dolcezza, odore. 
Triste mondo pallido
bagnato di rugiada
che alacre d'usignuoli
l'alba fai! Da richiamo
incantato lor, insonne, 
fui rapito. Si, tu vieni 
solitaria, pur vicina 
siedi, sempre distante. 

Toccami, ch'io non senta
l'inutile distanza,
ma il tuo respiro, solo, 
una lieve fresca brezza,
di non sapere ('sì chiara mi guardi!)
che t'ho perduta un giorno... Eternità. 


Mimesi


UN COSO CHIAMATO CARLO GIORDANO (CHECCHÉ NE SCRISSE PRIMA GUIDO GOZZANO)
Verso il mio verso disperso su d'un foglio bianco, terso. C'era una volta il mio caro me, un re, che ormai già solo e vecchio è. Adesso non c'è più quel cielo blù. C'ero una volta e adesso non più. Nella torre del castello guardava triste 'l ruscello la principessa. S'affacciava dalla finestra, sospirava. Dalla prigione del castello triste era il suo volto, bello. Fu rinchiusa già da molti anni, l'aspetto omai ne ha avuto danni. Chissà chi sarà che la salverà. Oh mio bel castello, marcundiru, 'ndiru' 'ndello! Oh mio bel castà, marcundiru, 'ndiru' 'ndà! Chissà dove andrà la sua bellezza! Presto per lei sarà vecchiezza! Bellezza. Oh mia bellezza! Un pò ne rubò il cielo affinché restasse terso; un po' ne prese il sole protraendo il suo splendore; un po' ne volle 'l buon Dio poiché ne conta l'ore; un po' ne rubo il principe, abbandonato e perso. Bellezza. Oh mia bellezza! Ne volle anche l'usignuolo per cantare il suo motivo; ne rubo poi anche la terra 'ché etern'è Primavera; ne sottrasse poi il vento e ne prese anche la sera ed ognuno era contento... ah, dimenticavo, il rivo. Oh mio bel castello, marcundiru, marcundello! Oh mio bel castà, marcundiru, 'ndiru' 'ndà! C'era una volta il mio caro me, un re, che ormai solo e vecchio già è. Adesso non c'è più quel cielo blù. C'ero una volta e adesso non più.


sabato 21 novembre 2009

Acrostico


Giordano Bruno

   Giorno dopo giorno ti sei fatto una fama,
Intanto già tramava là il tuo fido amico
Offrendo a caro prezzo alloggio, il Mocenigo;
Riuscendo, chi come Giuda il suo signore ama,
   Di farti poi inquisir da quel tribunal santo,
Ancorché di santo esso avesse solo il nome.
Non volesti poi cambiar, non sapevi come;
Osar di rinnegar non era il tuo ver vanto.
   Bruciasti nell'ann' del signor milleseicento
Rinunciando alla loro vil proposta oscena.
Un dì al Campo de' Fior val ben più della pena,
Nel qual fuoco apparve intatto il tuo portento.
   Ormai solo cenere di te resta... al vento.


Après soi, le déluge

 

Dopo aver letto e riletto "'L mal de' fiori" di Carmelo Bene, credo proprio non si possa leggere niente più, né Alda Merini, né tantomeno quel bel morto che è Mario Luzi. È un caso umano, non certo poetico. I media né hanno fatto un pizza di questa esperienza dolorosa psichiatrica, dei suoi trascorsi. ecc... Un caso umano, appunto... Che c'entra la poesia? Lo Stato l'ha rinchiusa in manicomio e lo Stato l'ha rendenta, l'ha fatta diventare un caso letterario. Ho letto diverse poesie di Alda Merini, ma noto che hanno sempre questo vincolo asfissiante del privato, dell'esperienza che si vuole comunicare a tutti costi (a costo di evitare la poesia stessa); non è mai tentata dalla follia, dal trasgredire le regole, impelagata com'è a discorrere con il suo vissuto. Non è una vera "pazza" come poteva esserlo Dino Campana o l'inarrivabile Carmelo Bene.

E sì!... Con C.B. si è fatto fuori il corpo e le sens'azioni corporee, si è eliminato lo spirito, si è dato scacco alla stessa anima che credeva di salvarsi per chissà quale virtù oltrerrena...

      E animella deliciola ch'è callida
      'n evitar di struggersi 'n padella
      svolazza affior d'altrove vispa più
      della Teresa...

E noi invece stiamo qui ancora a imbelletare i cadaveri della letteratura.

il cannocchiale

Cava (Versione Celeste, Juan Larrea)

 

Dinamite in fiore
dinamite d'orologio
carne mia cara dinamite

Istinto origine d'alba e di locanda
l'atmosfera cade in ginocchio di neve

ed è facile come imparare a leggere
il segno esteriore intrecciato con ghirlande di foglie

Dinamite d'orologio
carne mia cara dinamite

Ascolta gli istanti che giungono sui loro ciuchi segreti

Cava (Versione Celeste, Juan Larrea)

Foto

 



Poesia dell'autore

 


SCURE TARDIVA

I crani superflui-bighe
coltelli ombreggiati
sinora
diottriche funi-tedio.
Amilcare serpeggia-nano
paffuti-cordial lisi –
Finalmente Ercole deruba
l’avviatore scosceso-tana.
Entità protratta
                  in auge
                                    foce-ombra.
 

Foto

 



El crimen fue en Granada (Antonio Machado)

 

            I EL CRIMEN
Se le vio, caminando entre fusiles,
por una calle larga,
salir al campo frío,
aún con estrellas, de la madrugada.
Mataron a Federico
cuando la luz asomaba.
El pelotón de verdugos no osó mirarle la cara.
Todos cerraron los ojos;
rezaron: ¡ni Dios te salva!
Muerto cayó Federico
-sangre en la frente y plomo en las entrañas-.
...Que fue en Granada el crimen
sabed -¡pobre Granada-, en su Granada...

            II EL POETA Y LA MUERTE
Se le vio caminar sólo con Ella,
sin miedo a su guadaña.
-Ya el sol en torre y torre; los martillos
en yunque y yunque de las fraguas.
Hablaba Federico,
requebrando a la muerte. Ella escuchaba.
"Porque ayer en mi verso, compañera,
sonaba el golpe de tus secas palmas,
y diste el hielo a mi cantar, y el filo a mi tragedia de tu hoz de plata,
te cantaré la carne que no tienes,
los ojos que te faltan,
tus cabellos que el viento sacudía,
los rojos labios donde te besaban...
Hoy como ayer, gitana, muerte mía,
qué bien contigo a solas,
por estos aires de Granada, ¡mi Granada!"

            III
Se le vio caminar...
Labrad amigos,
de piedra y sueño, en la Alhambra,
un túmulo al poeta,
sobre una fuente donde llore el agua,
y eternamente diga:
el crimen fue en Granada, ¡en su Granada!

(Antonio Machado, El crimen fue en Granada)

Da 'l mal de' fiori (Carmelo Bene)

 

Voce mia tua chissà chiamare questo
Mia tua chissà la voce che chiamare
ventilato è suonar che ne discorre
in che pensar diciamo e siamo detti
vani smarriti soffi rauchi versi
prescritti da un voler che non si sa
disvoluto e alla mano intima incisi
segni qui divertiti disattesi
sensi descritti testi
d'altri che morti fiati
dimentichi 'n mia tua chissà la voce
Noi non ci apparteniamo È il mal de' fiori
Tutto sfiorisce in questo andar ch'è star
inavvenir
Nel sogno che non sai che ti sognare
tutto è passato senza incominciare
'me in quest'andar ch'è stato.

(Carmelo Bene, 'L mal de' fiori)

Milano, agosto 1943 (Salvatore Quasimodo)

 

Invano cerchi tra la polvere
povera mano, la città è morta.
È morta: s'è udito l'ultimo rombo
sul cuore del naviglio. E l'usignolo
è caduto dall'antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano


Assedio di Adrianopoli (da Zang tumb tumb, Filippo Tommaso Marinetti)

 

ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare
spazio con un accordo tam-tuuumb
ammutinamento di 500 echi per azzannarlo
sminuzzarlo sparpagliarlo all´infinito
nel centro di quei tam-tuuumb
spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati)
balzare scoppi tagli pugni batterie tiro


rapido violenza ferocia regolarita questo
basso grave scandere gli strani folli agitatissimi acuti della battaglia furia affanno orecchie occhi
narici aperti attenti
forza che gioia vedere udire fiutare tutto
tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare
a perdifiato sotto morsi shiafffffi traak-traak
frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie
salti altezza 200 m. della fucileria
Giù giù in fondo all'orchestra stagni
diguazzare buoi buffali
pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack ilari nitriti iiiiiii... scalpiccii tintinnii 3
battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac
[ LENTO DUE TEMPI ] Sciumi Maritza
o Karvavena croooc-craaac grida delgli
ufficiali sbataccccchiare come piatttti d'otttttone
pan di qua paack di là cing buuum
cing ciak [ PRESTO ] ciaciaciaciaciaak
su giù là là intorno in alto attenzione
sulla testa ciaack bello                 Vampe vampe
                vampe vampe
                                vampe vampe
vampe (ribalta dei forti)
                vampe
                                vampe
dietro quel fumo Sciukri Pascià comunica telefonicamente con 27 forti in turco in te
desco allò Ibrahim Rudolf allò allò

Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano


L'infinito (Canti, Giacomo Leopardi)

 

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano


Cobò (Aldo Palazzeschi)

 

Chicchicchirichi!... Chicchicchirichi!...
"Ecco il dì".
Cantano i galli di Cobò.
Il vecchio Cobò è sul suo letto che muore
fra poche ore.
Povero Cobò! Povero Cobò!
Ciangottano i pappagalli.
Addio Cobò! Addio Cobò!
E le galline:
cocococococococodè:
"oggi è per te"
cocococococococodè:
"Cobò tocca a te".
Le tortore piene di malinconia
si sono radunate in un cantuccio:
glu... glu... glu...
"non ti vedremo più".
I cani si aggirano mesti
con la coda ciondoloni, mugolando:
bau... bau... baubaubò:
"addio papà Cobò".
E i gatti miagolando:
gnai... gnai... gnai... fufù
"Mai... mai... mai più".
E le cornacchie:
gre gre gre gre
"anche a te, anche a te".
Fissando il capezzale
la civetta
veglia e aspetta.

Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano


Qui bevono ancora (S. A. Esenin)

 

Ascolta la versione recitata da Carlo Giordano