domenica 20 gennaio 2013

Quattro momenti su tutto il nulla - l'Eros

Momento 3°

Parlami! Ti ho invocato nelle notti
serene, ho spaventato gli uccelli
addormentati tra i silenziosi rami,
per chiamare te...
Ho risvegliato i lupi montani
ho appreso alla caverne a riecheggiare
invano il nome tuo adorato; tutto
rispose, tranne la tua voce. Parlami!
Ho errato sulla terra e non ho mai
trovato a te l'uguale. Parlami!
T'ho cercato tra le stelle a vanire,
ho contemplato il cielo inutilmente,
senza trovarti mai. Parlami! Guarda,
i demoni a me attorno hanno pietà
di me che non li temo e ho pietà
per te soltanto. Parlami! Sdegnata,
se vuoi, ma parlami!... Dimmi...
non so che cosa, ma che io ti senta
una volta ancora...



Lady Macbeth - Quello che li ha ubriacati mi fà audace
Che li ha spenti mi accende Questo grido
È la civetta foriera di morte
che dà la più sinistra buonanotte
Egli è là Son dischiuse le porte
Sazi russano i servi beffandosi
della consegna Le bevande loro
ho drogato così che vita e morte
se li contendono...

[Macbeth - Chi va là Cos'è

Lady Macbeth - Temo si  sveglino... E non ha finito
È il tentativo Non l'atto a perderci
I pugnali son pronti all'evidenza
Deve averli veduti Non avesse
somigliato mio padre nel suo sonno
L'avrei fatto io stessa... ] Macbeeeeth!

Macbeth - Fatto (!)
Tristo, tristo - nevvero? - codesto metalogico dettato sulla miseria della scontenta irrequietudine dell’amore. Groddrek precisa essere la copula un surrogato della masturbazione, e non viceversa. E altrove - cito come a memoria - "che cos'è un piacere se non un eccitamento del senso di potenza attraverso un ostacolo che in tal modo lo fa gonfiare?" Dunque, ogni piacere contiene anche dolore. Schopenhauer è solare quando afferma che il sospirare degli innamorati altro non è che il sospiro della specie: il vagito della specie. Gli amanti giovanissimi e decrepiti inghirlandano le mani intrecciate stupidissimamente fissandosi nelle finestrelle chiuse degli occhi e sofferenti smaniosi, paiono lamentarsi d’esser loro quei due nel chissà dove, ed emettono suoni che se fossero in sé non ascriverebbero senz’altro alla propria fonatoria emissione. Macché, posseduti e stregati da una sorta di arrogante dualità irresponsabile, non indagano a fondo sulla qualità timbrica e tanto meno sulla estraneità di quelle voci, di fuori appunto, che certamente non possono davvero appartenere al nulla in fregola che reclama - è assurdo - la sua urgenza di essere messo al mondo. Questi vagiti, suoni, sono del via col vento e basta, di quei due che già in anticipo soffrono il marcio della procreazione, cui sono condannati; doglie del parto, e stolide strazianti astanterie paterne nelle cliniche. "Gaude il terzio, che no". E non è davvero il buon Dio che certamente non se la sente d’esistere apposta per questo, per combinare scappatelle abortite, indaffarato semmai a rigenerare sé stesso da sé stesso, in quella sua eternità del fuori tema. Poveri poveri, poveri innamorati!... subiscono la sorte dei due termini nella proposizione grammaticale, congiunti da una copula, rovesciando questa proposizione nella vita vissuta. Ogni maschio in amore, a ben pensarci, meriterebbe la castrazione inflitta ad Abelardo, ridimensionato dal suo furore linguistico a canzonettista erotico, da medioeval-modista a Farinelli. Leggiamo un breve passo de 'l mal de' fiori il poema che mi ha scritto l’altr’anno, una pagina in che il corpo affaticato dalla copula, se ne lamenta...
Anzi ch’è fotta ’l cordelcorp me ’l dice
ahi! me fa mal al mal
st’eriticazzamor ch’heros vu’ dite
de ’mmassar a che pro s’istessi semper
vo’ du ‘sassin de novo ve ristate
spectaculo deforme accominciar l’etern
tristo ’rotico che
m’envolve stracc
fa me viver sta mor
Il cor m ’l dise ‘nzogno der tremoto
che me scerpa tra un momentin o dò la serà strizza
stacarndeporc
sudada ’n la stasir Ahi ahi ve ’nploro
dice ’l cor me ’scoltate
El paradiso è star
comme se fusse no
Nella frenesia dell’amplesso sciagurato è il corpo, e solo il corpo, ad accusare lo stress di ogni frequentazione amorosa. Ahi l’amore, l’amore facchino!... è costante refrain ne 'l mal de' fiori. E il corpo che, potendo, chiederebbe soltanto di essere disindividuato, invocherebbe una tregua alla erotomane frequentazione ignara, dal momento - Deleuze - che "noi siamo" e non "abbiamo un corpo", anche esso vittima del linguaggio. Questo corpo non è strumento neutro, è un oggetto balocco del pensiero, è un insaccato di nervi ed ossa, di muscoli e di carne, carne senza concetto, appunto, privo di volontà come di voglie - (sensazioni, gusto, visione, udito, olfatto) e in balia del nevrasse che lo asserve, animandolo a proprio talentaccio e dispiacere. Tristi prerogative delle mente che, guarda caso, nel suo inconscio, in fondo ad altro non ambisce che a smentirsi, farsi corpo cadavere, regredire all’inorganico, a una pietra, a quel non essere mai stata. Nostalgia delle cose che non sono! E l’abbraccio, l’abbraccio degli amanti, non evidenzia forse il modo e il mezzo di evitare un viso a viso intollerabile?
Bracciaperte ‘n la croce addùa innervata
in coesa ruina eros vinghia inimica
carne ‘n la febbre ìssima L’abbraccio
indù ‘n che tremulo
bronzo è fuso siccome ‘n cera molle
di sagoma ch’è una Visavviso
solo inviso è l’amor d’amor irriso
in franto specchio ‘stretto a no vedersi
got ’ a ganascia stagna ch’è reclina
’stringe amor a evitarsi ’n visavviso
che non più mai si sdua ’Stringe a nientar
i ’nnamorati vólti
vòlti a si star sconoscersi scordar
che s’era imprima
ne la distanza breve di due passi

È ’l sogno che vanisce negli amanti
da gli amici acclamati
ne’ convegni d’amor che fai stasera?
- Niente ti chiamo ci vediamo troppo
se di lontano certo
dove vuoi gli occhi chiusi ci vediamo
a più non esserci
com’era prima quando noi non s’era
Nell’equivoco erotico, siccome nel delitto il più perfetto, si copula e si uccide soprattutto perché si sappia, se no equivarrebbe alla recita di due attori senza pubblico.
Ruotano inverse stupide su ’l ghiaccio
ai bordi de’ morosi le figure
d’erosfoia ’mbestiate a pena schiuse
se pur ansanti ’nfuriano a sfogliarsi
de l’incomode ’n bello vest ’n ferro
Dorsaddorso violetti ’n po s’ingrugnano
in tra se de ’l peccato questo ’l solo
non esservi presente un qualche amico
fido a testimoniar di loro gesta
chè l’ammore è traruto Ddoie se vonno bene
e nisciuno c’ ’o dice a nisciuno
Nun è cosa Cuntento nun si’
Il reo non s’appaga d’aver commesso il fattaccio ma, arrogatasi la pretesa paternità della colpa, reclama il proprio nome in locandina, è sempre confesso. In un delizioso raccontino di Edgard Allan Poe, il genio della perversità, un impeccabile austero docente di frenologia, coincide coll’assassino, autore di un delitto perfetto, meditato per settimane e mesi. "Sono al sicuro, sono al sicuro, sono al sicuro", si ripete; questa tanto piacevole sensazione si converte via via in una giaculatoria da incubo: "sono al sicuro, sono al sicuro, sono al sicuro, si... a meno che... a meno che, non sia così cretino da farne io stesso completa confessione". E difatti lo grida ai quattro venti. Se non esisti, sei autore responsabile di un bel niente, e tuttavia sei condannato a dirlo, questo niente. È così che attorno a un crimine si apre sempre un’affollatissima asta di candidature estranee al fatto, di gente già pentita di non averlo commesso. Si uccide appunto per poterlo raccontare. Al di là di ogni principio di piacere, l’assassino cede comunque alla tentazione dell’asino, recitare da asino, per essere attendibile come assassino. Un delitto inconfessato è un delitto mai accaduto. Il geniale cretino perverso, fa di tutto perché lo si sospetti, la sua vanità ha requie solo una volta per tutte se riconosciuto, a costo della galera e del patibolo. “Ah, non volerti misera, non deve specchiarsi in te la povertà dell'amore” (Friedrich Holderlin).
Questo dramma per me non è nulla.
L'ho concepito e vi ho lavorato fra
repellenti preoccupazioni domestiche.
[...]
Ti ricordi Una volta eri solo
ti svegliavi Prendevi il caffè
nella stanza disfatta
senza fare toelette
Ti rovesciavi sulla tua poltrona
Soffocato di noia Sognavi
guardando il letto Una
che m'adorasse
L'uno per l'altro insieme
Lei sola al mondo

S'alzerebbe sbiancata
Si darebbe d'attorno

Mi occuperei della sua toelette
L'asciugherei
Pettinerei senza farle male
Le allaccerei il corsetto
La vestirei di chiaro
Da gita in barca

E sognerei sì che una volta laggiù
Invece di goderne
sognerei finalmente d'esser solo

Solo Prendere un treno
Ritrovare gli amici i caffè
Osservare i passanti
Perso... Perso...
Se amore nel suo scontro irreciproco, cioè la copula, squassa, delude, annienta i corpi stracci dei due vanamanti, si mostra ancora più spietato nell’esercizio della finamor, quest’eufemismo scellerato, se nella filologia romanza trobadorica, e tanto peggio detto appunto, amor cortese. Dove la sospensione categorica dell’erotismo fisico, è prescritta in ogni sua declinazione, ritualmente soppiantata dall’insistito unilaterale corteggiamento in voce, privilegio patronale esclusivo del cavaliere amante. Bell’espediente questo che risparmiava al maschio le fatiche del coito trasudato, fastidiando - e non poco! - la dama tramutata in mero ascolto, letteralmente trascurata nelle sue più naturali esigenze fisiologiche, così ferocemente frastornata dalla tetragona devozione lirica tributatale. E non finisce qui, che se la malcapitata castellana si sottraeva a tanta s-cortesia innamorata, ecco che il suo signore trasumanava in madonna, quel suo fin lì profano oggetto erotico. Ormai così incolmabile la distanza, campato il tutto in aria, come tra cielo e terra, questi signori dell’amor parlato, inalberati a cavallo con tra le mani tanto di specchio, preferivano farsi crociati, piuttosto che restar lì a starsene zitti. Meglio votati ai rischi del divino amore, che rifiutati servi dell’amor parlato. E nella grande mistica, l’amore per il prossimo è comunque associato a una forma di irrequietudine peccaminosa. L’amor sospetto in Angela da Foligno è in Maddalena dei Pazzi addirittura elevato all’amor morto, e per di più riferito a Dio.
L’ultimo amore è l’amore morto, il quale non desidera non vuole, non brama e non cerca cosa nessuna, perocché l’anima che possiede questo amore, per la morta relassazione che ha fatta di sé in Dio, non desidera conoscerlo, intenderlo, né gustarlo, nulla vuole, nulla sa e nulla vuole potere vivendo al tutto siccome morta.
L’eros facchino ha tregua nel suo rovescio costituito dal porno che, per sgomberare il campo dagli equivoci, sarà preferibile definire o-sceno, dall’etimo fuori-scena. L’osceno è, per definizione, l’eccesso del desiderio, una volta s'intende sacrificato, svilito, immolato, Eros.
siccome e’ gira gira ferma qui a noi d’accanto
su ’l perno ’l suo ’na giostra
di ciuchi ’n cartapesta che si dondolano
immoti e vanno vanno
’n chissaddove infanzia
lontanata del vano
suo non più che fu mai
’me stanno stanno e vanno
mai dipartiti ’n non tornar mai più
È quando pur muovendosi si sta, annichilito come l’amore morto, il - tra virgolette - rapporto osceno, è la relazione mancata tra soggetto e oggetto, è l’orgasmo non sollecitato da nessun desiderio, da nessun vitalismo, voglia. Prerogative dell’ansia erotica queste, nella irreciproca situazione oscena, i corpi se ne stanno come cose, oggettità pietrificata, ma presente alla mente come un altrove, una irriflessa sovra-coscienza incantata; le posture, i gesti somigliano, le smorfie involontarie, come evocate da una meccanica automatica, come se qualsivoglia occasione porno fosse spiata da un occhio estraneo, intestimoniabile, assolutamente altro dall’orgasmo proprio delle estasi mistiche, di cui il soggetto oggetto sa un bel niente, mai presente a se stesso nel suo oblio. Il non amore osceno somiglia il ricordare le cose che non sono, le cose sole, queste, indimenticabili.
Siamo fuor del marcire dentro un sacco
morente assenza Resti
di che mai fu In provincia
la stessa che ritorna tourne à naître
in tour-nées poveri guitti
babalbutiti ’n vuota scena da
nostradonnamaria insignificanza indove
ce ne no stiamo più non stiamo e t’amo ’n letto
’me se d’altrui cadaveri ’nventato

L’hanno portato via l’hanno portato
chi l’aveva una volta mai l’amata
se non a mo’ di tazza sul comò
tepida oscena dura a mo’ di smalto
busto tronco sensuato ’me di bambola
educato ’n androide sì così
si sta in così ecce femina ch’è no

Distaccata ’me pronta lontanata chissà
per s’avvicina l’altra mano toccami
qui dove più non duole
il no del corpo star in fare il morto
Che ragazza e ragazza! È cosa spoglia
nella sera dall’ombra carezzata
ne la carezza ombrata da la notte
in dell’incanto sole del meriggio
domestico claustrato d’arabeschi
divini evanescenti alle marine
pareti della stanza ’n divenir

Che ragazza e ragazza! sperso arredo ’n dettagli
in apparir disparso dentro vano
che d’intimo discreto in m’hai scordata
L’hanno portata via l’hanno portata
’me il tutto ch’è mai stato e poi finì.

Quattro momenti su tutto il nulla - coscienza e conoscenza

Momento 2°


Che dire? Niente. Sogno d’essere un tale che intestardito d’esserci ci pensa. Lasciamolo pensare. Nulla esiste e, ammettendo che esista, non potremmo conoscerlo. E se ci fosse possibile conoscerlo, non avremmo alcun modo di comunicarlo. Suona così nei secoli dei secoli il ceffone di Gorgia a quel Parmenide che ha inventato l'Essere, identificato con il pensiero. Basta! Sgombriamo il campo recinto dallo specifico impensierato, le sabbie mobili di ogni filosofia linguistica, sgombriamo il campo da qualsivoglia impossibile comunicativa destinazione, abortita ogni smania e insulsa del proferire ad essere compreso. Tutto che mi si è appreso nei mill’anni, che mi s’è appreso sì come appiccicato addosso ma disappreso. Ho in orrore parola e pensiero e non soltanto perché mascherato sotto sghignazzi, smorfiato l’auto inganno, l’errore, ma parola e pensiero intesi proprio in quanto illustrazioni, immagini, colorati segni di che si veste ogni speculazione linguistica. È un’onta questa, un’onta ottica, più che ontica, a fastidiarmi e come. Stracolorata figura è ogni scrittura cartacea o detta. Saussurre chiama ‘immagine acustica’ il significante, la voce è stradipinta, volgarità espressiva imputtanata dell’orale intenzionato che è rosso fin nelle più bambine articolate sillabe. Vento al vento, soffiate. Questa voce, questa mia voce che qui ora mi ciabatta, distorta nell’erranza del discorso, nello sconcerto evento dei miei spettacoli oltre il senso (teatro senza spettacolo) è il senso, è ricerca impossibile come rigorosa impossibilità del trovare. Questa voce si fa cesura tra parola e cosa, tra linea e forma, tra voce e lògos, tra detto e dire, tra attore e ruolo nella rappresentazione disattesa, mancata. Questa voce è quanto si sottrae al linguaggio, ne spettina, ingarbuglia la comprensione intollerabile come un timbro prodotto dalla simultaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente. Il lavorio della cavità orale provoca la spaccatura attore-ruolo, ma anche al suo stesso interno questa stessa voce vomita sulla scena l’abbiezione del senso e del soggetto in una plurivocalità del dire, che consente di sentire in molteplice all’interno della parola. È come ha detto in merito Camille Dumoulié, è introdurre sulla scena colui il cui nome è legione, il dia-bolico contro il sim-bolico.
Macbeth - Aaaahhh!... No! Chi di voi ha fatto questo?... Non puoi dire che sono stato io... E non mi scuotere in faccia i tuoi capelli insanguinati. Guarda guarda... guarda!
Einstein concepisce la conoscenza come la cosa più incomprensibile dell’universo. Ogni larvata forma di conoscenza è indissolubilmente ancorata alla mediazione linguistica che ci condanna alla perversione del significato, a una presunta oggettità altra rispetto al sedicente soggetto che la designa. L’umanità parlante ha da rassegnarsi alla necessità gratuita della mera nominazione orfana del soggetto e dell’oggetto. Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé finiremo per scoprire su di esso nient’altro che le cose, se vogliamo cogliere le cose ritorniamo in definitiva a nient’altro che lo specchio: questa è la più universale storia della conoscenza, chiosa d’un genio, contraffazione ottica, appunto, da cui il famigerato guardarsi dentro, autentico strabismo che nell’equivoco di una risibile sfera interiore tanta insania ha definito‘coscienza’. L’Amleto che se ne scopre privo si proclama, in mala fede, vigliacco. 
Orazio - ... lo spettro che ho veduto potrebbe essere il diavolo; se vuole un diavolo può assumere gli aspetti anche più cari; un diavolo, potentissimo com'è, può cogliermi in quest'attimo di spleen e malinconia e menarmi a perdizione. No!... Non mancheranno altre più serie occasioni al mio intento [...]
Orribile orribile troppo orribile!... Se c'è ancora in te sentimento umano, tu non puoi sopportare tutto questo. Non permettere che il talamo regale di Danimarca sia ridotto a uno strame per la lussuria e l'incesto abominevole [...]
Essere o non essere, questo è il problema?... Forse più nobile ....... o ribellarsi........ morire dormire più nulla?!... E con un sonno fermare i battiti del cuore e le infinite offese della carne?!... .......... Morire dormire dormire forse sognare... Si racconta più di un assassino che sedendo a teatro ad ascoltare un dramma preso e profondamente scosso dall'artificio scenico subito lì dov'era rivelò il suo delitto?!... Io farò questi attori recitare un qualcosa di simile alla morte di mio padre davanti a mio zio?!... Ne seguirò il contegno, lo toccherò sul vivo?!... Se appena ha un fremito saprò il da farsi?!... Il dramma è la trappola in cui sorprenderò la coscienza del re... Puah!...
Baritono [zio Claudio] - Padre ti sono ancora. / Lo credi a questo pianto. / Il volto mio soltanto / fingea per te rigor.
Orazio - ... Ora è il momento giusto, ora che sta pregando, ora lo faccio?!... Così va in cielo e io son vendicato?!... Ma... un momento un momento: la canaglia mi assassina il padre e da quell'unico figlio che sono, quella stessa canaglia la mando in cielo?!... Questo è render servigio e non vendetta?!...
Quanto ai rimorsi di coscienza, Villiers de L'Isle-Adam in uno dei suoi splendidi e feroci Racconti crudeli narra d’un vecchio attore sopravvissuto alla sua lunga carriera sprecata nella rappresentazione simulata dell’altrui vissuto, frequentato soltanto come lettera vuota, riferita dalla cadaverina dei defunti testi; vecchio attore che, finalmente preso dalla curiosità di sinceramente sperimentare un tantino d’umano in vita autentica, si dispone a concedersi una vera passione e tra le tante decide per il ‘rimorso’. Incendia tutt’un quartiere parigino e spettatore tra la folla esterrefatta, compiaciutissimo, ne contempla l’orrifico esecrabile disastro; s’apparta quindi in un vecchio faro costiero, un habitat di cui ha già provveduto a farsi eleggere guardiano, e qui s’infervora a sfogliare la tantissima cronaca nera del suo misfatto, evidenziato ovunque a tutta pagina dall’indignata stampa nazionale, aspettando fiducioso l’insorgere sacrosanto dei rimorsi che tuttavia tardano a manifestarsi. I rimorsi da lui devotamente sollecitati, incrementando intanto l’entità del proprio crimine con il provocare catastrofi marine omettendo o alterando i segnali opportuni. Scorrono giorni e notti in vano. Niente! Nessun rimorso. Nessun rimorso inquieta la sua coscienza. L’etica non ha senso di colpa, né rimorsi.
Baritono [zio Claudio] - Come il bacio di un padre amoroso
l'abbi tu bel mio amato stranier.
Come il bacio di un figlio pietoso
a me burlo, figuri figuri il pensier.
Amleto - Io che ho esordito con il dovere
di rammentarmi l'orrido
Orrido orrido orrido evento
Per esaltare in me la pietà filiale
Per far gridare l'ultimo
L'ultimo grido al sangue
di mio padre mio padre mio padre...

Io che ho voluto riscaldarmi il piatto
Riscaldare il mio piatto della vendetta
Ecco che invece ho preso
Ho preso gusto all'opera

Mi scordai di mio padre
Mio padre mio padre
assassinato il bravuomo
assassinato

Mi scordai di mia madre
Prostituita
(M'ha distrutto la donna questa visione)

Il mio trono ho scordato
il mio trono il mio trono

Me n'andavo a braccetto d'un bell'argomento
Il mio trono il mio trono

Che mostro Istrione, sì...
Musicalissima incoscienza. E qui si che l’etica fà scempio della morale, paternità e regalità oltraggiata, irresponsabilità d’amor filiale, maternità ingombrante prostituita, contenuti e valori storici svuotati dalla pura beltà dell’argomento, onorabilità dimissionaria, social-civile dovere pubblico obliterato, mutuo soccorso e concetto di prossimo dissolti, popolo e patria esplosi, umanità e umanistica cultura vilipese, siccome solo in sogno t’è dato di sognare. Cultualità [è] il lavoro salariato, riconsegnati a loro, al disonore: condominio, famiglia: in pattiumiera; gioventù impensierata: agli arresti, ma subito: agli ar-re-sti.

Con Sade e Masoch, l'infortunio dell'etica coniugata alla morale (la morale della legge, del bene, della volontà del giusto) ha conosciuto le sue vertigini. Infortunio accecato, travolto dall'irruzione del comico nel pensiero, nella scrittura extra-linguistico-letteraria. Così più o meno Deleuze: "vi è stato un solo modo di pensare la legge, una comicità del pensiero fatta di ironia e umorismo". Più  di qualcuno ha riconosciuto in Sade la più alta e significativa persona etica della umana storiella. Non v'è niente d'erotico in Sade; v'è tutt'altro. Nella ripetizione orgiastica de-ri-sessualizzata all'infinito dall'apatia del fantasma sadiano, fino alla prostituzione universale, oralmente invocata da Sade nella Filosofia nel boudoir, dalla calunnia, al furto, all'incesto, allo stupro, alla sodomia, al delitto, eccetera... Prerogative queste elette a istituzioni fondamentali d'ogni rigorosa repubblica. L'umorismo erotico pervade tutta l'opera di Masoch. Comico e porno invece vanno a braccetto in Franz Kafka. L'edificio sadiano è strutturato a scatole cinesi: nella più grande c'è la più piccola, nella più piccola l'impossibile. La spropositata emissione di sperma equivale alla quantità di salivazione retorica: stupro e sodomia del linguaggio nella criminalità della scrittura. La trasgressione del linguaggio è la trasgressione morale. E di fatto la poesia, non il poetico dell'anima bella, per dirla con Roland Barthe, ...la poesia, che è il linguaggio stesso delle trasgresioni del linguaggio, la poesia è sempre contestatrice. Come Rimbaud ha sculacciato la bellezza, Sade ha ecceduto il linguaggio nella criminalità della scrittura, vanificandone ogni possibile lettura a livello di rappresentazione letteraria del reale, ridicolizzando ogni interdizione interventistica della legge, nel suo e nel nostro tempo. Della legge, che insiste ancora nell'interdire la diffusione delle sue opere, la cui mostruosità consiste essenzialmente nel cortocircuito frastico del discorso, nell'ironia esasperata dalla reiterazione orgiastica dove il fatto coincide con tutto detto (il toute dit), già raccontato ai protagonisti libertini della perversione puntualmente serale delle narratrici. L'oltraggio irrappresentabile come attentato sadiano alla moralità della scrittura, nel corpo di un suo libro. Una pagina, quasi una velina, sembra sovrapporsi a un'altra e quest'altra a un'altra ancora, nello stesso tempo, moltipicando lo strabismo del lettore. Quest'oltraggio non costituisce una lettura de-genere, ma è decisamente fuori da ogni ordine letterario. Mai come in questo nostro tempo, tra i più sanguinari e insignificanti, mai s'è tanto abusato di parole quali fratellanza, governo, solidarietà, tolleranza, pacifismo, ecc... Mai nessun altro tempo fu come questo così parodisticamente etico e perciò risibilmente amorale; mai nei suoi singoli infettato da plusvalori di moralità, tanto che si è costretti a sconfinare nella cronaca nera per reperirvi una qualche figuraccia patologicamente etica. Siamo asfissiati da una massa così sciatta, amorfa e, paradossalmente, intraprendente, che non ci sentiamo in compenso oppressi - finalmente! - da nessuno equivoco moralistico. E non è poco. Nell'insignificanza della tirannia delle plebi, il vilipendio banale della pornografia contemporanea, nella idolatria insensata della società delle immagini, travolta dalla sua propria volgare insulsaggine caleidoscopica nelle edicole e nei ritrovi a luci rosse, è il motore della parola nella clonazione mediatica di massa, irrimediabilmente assordata dal mercatino delle visioni, nel cimitero planetario della vocalità tumulata. Una massa accecata e perciò inetta ai davvero trasgressivi invisibili piaceri d'ogni lettura scritta, in balia dei valori moralistici d'accatto, incapace di ridere delle nomenclature. La legge è il desiderio represso eccetera... Una massa ignobile al punto da stupire della frequenza del crimine consumato in seno alla sua stessa famiglia, perché non riesce a considerare la famiglia come crimine. Quanto ai comportamenti del femminile odierno, pur di adeguarsi alla volgarità politica del mercato, la donna si traveste di tutt'altro, degenerando in ibrido, fino alla più funesta conseguenza: abdicare alla propria congenita stupidità, invidiabile, alla spensieratezza, in cambio della sciagurata omologazione sociale, nella sua pensierosa mascolinità impotente. E dire che, per non so quanti vite consacrate all'esercizio scenico del de-pensamento, flettendo fino al ridicolo l'algido irrompere del comico nell'immediata sospensione del tragico, smemorato, mentecatto, immemore nell'abbandono, il più dis-voluto, proprio spiando l'idiozia dell'arte, ho perseguito - e quanto devotamente! - la beatissima grazia della stupidità.
Sono ancora vergine! Che diranno le mie amiche?! Quanto saranno gelose! Sono sposate a dei filistei; per loro quella certa cosa è capitata pesantemente, brutalmente, subito dopo il ballo, senza che vi fossero preparate; prima di potersi raccapezzare, sono state giusiziate, si sono beccate quella certa cosa come l'ultima mazzata d'una giornata sfiancante. E io, invece, eccomi qua fresca fresca: arroventata dagli amplessi della notte, con davanti a me tutta una giornata per far galoppare l'immaginazione e aguzzare i nervi nell'attesa. E' proprio vero, gli artisti restano artisti in tutto. Ah, l'arte!, come dice il mio buon principe. Sono felice! Quanto saranno gelose le mie amiche!

[... Ma a che ora s'è alzato?... Ha lavorato
... Mica tanto divertente. Bisognerà che li legga tutti i suoi libri. Oh! quanto l'amerò! ]

Quattro momenti su tutto il nulla - il linguaggio

Finalmente, una trasmissione impossibile, anacronistica, mi veleggia, volteggia, l’essere frequentato dall’errore del vero sí come soffio asincrono della vita impensata. Ecco, non dico niente. Sto precisando in voce che non dico niente. Un "non dico niente" che, così, risuona. Non dico niente. Soffio di vento, divento soffio. Importa solamente come suono, questo non dico niente. Anche se orale, è niente fuori da timbro e tono. Aria d'ascolto emessa da un pensato logico senso? No. E perchè nulla, nulla m’è consentito dire che non sia equivoca volontà intenzionata di questa mia identità, vanita? Io sono il vortice inpensato della trottola, il movimento e la sua negazione, sono l'anti-umanesimo, Lorenzaccio che decapita le statue, Aguirre che si firma il traditore: Carmelo Bene, perché, soggetto alla necessità del nome, come rassegnazione al destino. Così come il tutto interdisciplinare mi indisciplina nel degenere estetico, mi sono degradato anche a poeta, ho scritto la voce, troviero d’un poema, ‘l Mal de’ Fiori’, perché leggere è scrivere il soltanto lettore è un fuori tema, è un parvenu di fronte a un foglio sempre più sbiancato. Ho di-scritto la voce con quella nostalgia che riserviamo alle cose che non sono mai state, da per sempre mancate; le cose, queste, sole, indimenticabili, nello sconcerto degli spettacoli oltre il senso: teatro senza spettacolo del senso, ricerca impossibile, come rigorosa impossibilità del trovare negli eventi di scena laddove si consuma il rifiuto dell’arte, inteso come rifiuto dell’umano; soprattutto il rifiuto dell’umano linguaggio nella sua eterna fucina delle forme. Ebbene, negli spettacoli sconcerti ho di-scritto la voce dell’inorganico,dell’inanimato, dell’amorfo, del non risuscitato alla smorfia dell’arte lasciandomi possedere dal linguaggio e non disponendone, sí come dato in quasi tutta l’espressiva cartolina del novecento poetico nostrano. Da dove ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il di-scorso. Nessun problema finalmente, un incipit è di per sé la fine. La favoletta biblica relativa alla dannazione caotico-linguistica inflitta alla gentaglia tracotante, rea di quell’aver tirato su la torre di Babele, oltre che falsa e stolida, non ha un bel niente di eccezionale; babelica davvero è ogni nostrana erranza linguacciuta nella variazione perpetua di qualsiasi mancato presente in divenire. Siamo quel che ci manca, da per sempre. Lo so, mi sa, che il nostro delirare in voce è un differire la morte, ché noi si muore appena abbiamo smesso di parlare, appena abbiamo smesso l’illusione d’essere nel discorso (consultare Saussure ecc.). È strarisaputo che il discorso non appartiene all’essere parlante. Lo so. mi sa... L’essere è il nulla, dunque noi non ci apparteniamo, quando crediamo d’esser noi a dire, siamo detti. Nel discorso, l’arroganza volitiva d’ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata e dal momento che non siamo noi i dicenti ad argomentare in voce, ciò che ci frulla in mente, così come non sei, puoi dire nulla. Questa mia voce è me attraverso un medium equivoco di un discorso altro dal presupposto, virgolettato, mio discorso. Il dire è la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato, voce che perciò dice nulla (vedi Carlo Sini a proposito della voce e il fenomeno in Derrida). Si può solo dire nulla, destinazione e destino d’ogni discorso. Ma solo questo nulla è proprio quel che si dice: la verità del discorso intesa come esperienza stessa del suo errore. Altro non resta che in tutto abbandono lasciarsi comprendere dal discorso senza appunto la nostra volontà di intenzione.
“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e Nietzsche mutuato in un distico di Montale). Che miseria, nevvero, che miseria, l’ostentazione risibile del così detto opinionismo nella straripante società dello spettacolo, delle zuffe tv, nelle tribune politiche elettorali, nei convegni accademici, e nei sempre audiovisivi intrattimentacci dove ciascuno a turno è straconvinto di dire proprio la sua, peggio ancora se si illude di mentire, di fingersi come avviene per gli interpreti a teatro, ce n’è fosse uno! Mi sono ripetuto dimostrandolo mille e più volte, che il termine attore ha il suo etimo nell’agere retorico, e nemmeno per sogno nel verbo agire. E, nonostante la solarità della mia lezione, questi frenetici spazzini del proscenio seguitano a naufragare, dove? Nell’identità, scoreggiona del teatrino occidentale, patronale del testo a monte, prosternati davanti alla morale del senso, alla strisciante servilissima venerazione dei ruoli, all’insensatezza psicologica, alla verità verbale coniugata alla più insulsa stucchevole frenesia del moto a luogo, alla rappresentazione, insomma, dei codici di stato, come se a tanta indecenza non provvedesse la virtualità della vita tout court. E non c’è soluzione, perché non basta soltanto non essere ignorantissimi, è il non esserci che è indispensabile. Ma ciò è impossibile se prima non vi siete chiodati qui, nella svuota crapa, che l’io, l’ iioo l’io dell’uomo ha creato Dio e non viceversa, che insomma il vostro Signore inquilino del superattico tra le nuvole non ha giammai disposto del proverbiale talentaccio del chi s’è fatto da sé, e per di più dal nulla. Il catechismo dogmatico devozionale non è teologia, Don Ockham il Dottore addusse a prova dell’Iddio esistenza che noi si può pensare anche le cose che non esistono. Complimentacci Monsignore …acci. Già”

giovedì 17 gennaio 2013

Assenza - "Solo è chi manca e perciò ritorna"

PAIS

¡Surtidores de los sueños
sin aguas
y sin fuente!
Se ven con el rabillo
del ojo nunca frente
a frente.

Como todas las cosas
ideales, se mecen
en las márgenes puras
de la Muerte.

Che mai patologia perversa costringe il miserabile a consegnarsi ai voti claustrali delle Muse? (C.B.)

Ma voi, vivi a casaccio che sputate sulla vita che è stata; voi interpreti arroganti (non solo del passato putrefatto, ma - del non più - presente codificato), voi non sarete mai. Solo è chi manca e perciò ritorna. (C.B.)

El crimen fue en Granada
     a Federico García Lorca
Se le vio, caminando entre fusiles,
por una calle larga,
salir al campo frío,
aún con estrellas, de la madrugada.
Mataron a Federico
cuando la luz asomaba.
El pelotón de verdugos
no osó mirarle la cara.
Todos cerraron los ojos;
rezaron: ¡ni Dios te salva!
Muerto cayó Federico.
- sangre en la frente y plomo en las entrañas.
... Que fue en Granada el crimen
sabed - ¡pobre Granada! -, en su Granada...

II

EL POETA Y LA MUERTE

Se le vio caminar solo con Ella,
sin miedo a su guadaña.
Ya el sol en torre y torre; los martillos
en yunque - yunque y yunque de las fraguas.
Hablaba Federico,
requebrando a la muerte. Ella escuchaba.
"Porque ayer en mi verso, compañera,
sonaba el golpe de tus secas palmas,
y diste el hielo a mi cantar, y el filo
a mi tragedia de tu hoz de plata,
te cantaré la carne que no tienes,
los ojos que te faltan,
tus cabellos que el viento sacudía,
los rojos labios donde te besaban...
Hoy como ayer, gitana, muerte mía,
qué bien contigo a solas,
por estos aires de Granada, ¡mi Granada!"


III

Se le vio caminar...
Labrad, amigos,
de piedra y sueño, en el Alhambra,
un túmulo al poeta,
sobre una fuente donde llore el agua,
y eternamente diga:
el crimen fue en Granada, ¡en su Granada!
Antonio Machado