domenica 20 gennaio 2013

Quattro momenti su tutto il nulla - il linguaggio

Finalmente, una trasmissione impossibile, anacronistica, mi veleggia, volteggia, l’essere frequentato dall’errore del vero sí come soffio asincrono della vita impensata. Ecco, non dico niente. Sto precisando in voce che non dico niente. Un "non dico niente" che, così, risuona. Non dico niente. Soffio di vento, divento soffio. Importa solamente come suono, questo non dico niente. Anche se orale, è niente fuori da timbro e tono. Aria d'ascolto emessa da un pensato logico senso? No. E perchè nulla, nulla m’è consentito dire che non sia equivoca volontà intenzionata di questa mia identità, vanita? Io sono il vortice inpensato della trottola, il movimento e la sua negazione, sono l'anti-umanesimo, Lorenzaccio che decapita le statue, Aguirre che si firma il traditore: Carmelo Bene, perché, soggetto alla necessità del nome, come rassegnazione al destino. Così come il tutto interdisciplinare mi indisciplina nel degenere estetico, mi sono degradato anche a poeta, ho scritto la voce, troviero d’un poema, ‘l Mal de’ Fiori’, perché leggere è scrivere il soltanto lettore è un fuori tema, è un parvenu di fronte a un foglio sempre più sbiancato. Ho di-scritto la voce con quella nostalgia che riserviamo alle cose che non sono mai state, da per sempre mancate; le cose, queste, sole, indimenticabili, nello sconcerto degli spettacoli oltre il senso: teatro senza spettacolo del senso, ricerca impossibile, come rigorosa impossibilità del trovare negli eventi di scena laddove si consuma il rifiuto dell’arte, inteso come rifiuto dell’umano; soprattutto il rifiuto dell’umano linguaggio nella sua eterna fucina delle forme. Ebbene, negli spettacoli sconcerti ho di-scritto la voce dell’inorganico,dell’inanimato, dell’amorfo, del non risuscitato alla smorfia dell’arte lasciandomi possedere dal linguaggio e non disponendone, sí come dato in quasi tutta l’espressiva cartolina del novecento poetico nostrano. Da dove ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il di-scorso. Nessun problema finalmente, un incipit è di per sé la fine. La favoletta biblica relativa alla dannazione caotico-linguistica inflitta alla gentaglia tracotante, rea di quell’aver tirato su la torre di Babele, oltre che falsa e stolida, non ha un bel niente di eccezionale; babelica davvero è ogni nostrana erranza linguacciuta nella variazione perpetua di qualsiasi mancato presente in divenire. Siamo quel che ci manca, da per sempre. Lo so, mi sa, che il nostro delirare in voce è un differire la morte, ché noi si muore appena abbiamo smesso di parlare, appena abbiamo smesso l’illusione d’essere nel discorso (consultare Saussure ecc.). È strarisaputo che il discorso non appartiene all’essere parlante. Lo so. mi sa... L’essere è il nulla, dunque noi non ci apparteniamo, quando crediamo d’esser noi a dire, siamo detti. Nel discorso, l’arroganza volitiva d’ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata e dal momento che non siamo noi i dicenti ad argomentare in voce, ciò che ci frulla in mente, così come non sei, puoi dire nulla. Questa mia voce è me attraverso un medium equivoco di un discorso altro dal presupposto, virgolettato, mio discorso. Il dire è la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato, voce che perciò dice nulla (vedi Carlo Sini a proposito della voce e il fenomeno in Derrida). Si può solo dire nulla, destinazione e destino d’ogni discorso. Ma solo questo nulla è proprio quel che si dice: la verità del discorso intesa come esperienza stessa del suo errore. Altro non resta che in tutto abbandono lasciarsi comprendere dal discorso senza appunto la nostra volontà di intenzione.
“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e Nietzsche mutuato in un distico di Montale). Che miseria, nevvero, che miseria, l’ostentazione risibile del così detto opinionismo nella straripante società dello spettacolo, delle zuffe tv, nelle tribune politiche elettorali, nei convegni accademici, e nei sempre audiovisivi intrattimentacci dove ciascuno a turno è straconvinto di dire proprio la sua, peggio ancora se si illude di mentire, di fingersi come avviene per gli interpreti a teatro, ce n’è fosse uno! Mi sono ripetuto dimostrandolo mille e più volte, che il termine attore ha il suo etimo nell’agere retorico, e nemmeno per sogno nel verbo agire. E, nonostante la solarità della mia lezione, questi frenetici spazzini del proscenio seguitano a naufragare, dove? Nell’identità, scoreggiona del teatrino occidentale, patronale del testo a monte, prosternati davanti alla morale del senso, alla strisciante servilissima venerazione dei ruoli, all’insensatezza psicologica, alla verità verbale coniugata alla più insulsa stucchevole frenesia del moto a luogo, alla rappresentazione, insomma, dei codici di stato, come se a tanta indecenza non provvedesse la virtualità della vita tout court. E non c’è soluzione, perché non basta soltanto non essere ignorantissimi, è il non esserci che è indispensabile. Ma ciò è impossibile se prima non vi siete chiodati qui, nella svuota crapa, che l’io, l’ iioo l’io dell’uomo ha creato Dio e non viceversa, che insomma il vostro Signore inquilino del superattico tra le nuvole non ha giammai disposto del proverbiale talentaccio del chi s’è fatto da sé, e per di più dal nulla. Il catechismo dogmatico devozionale non è teologia, Don Ockham il Dottore addusse a prova dell’Iddio esistenza che noi si può pensare anche le cose che non esistono. Complimentacci Monsignore …acci. Già”

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