mercoledì 26 dicembre 2012

Quattro momenti su tutto il nulla: l'arte

Momento 4°


Parlami! Ti ho invocato nelle notti
serene, ho spaventato gli uccelli
addormentati tra i silenziosi rami,
per chiamare te...
Ho risvegliato i lupi montani
ho appreso alla caverne a riecheggiare
invano il nome tuo adorato; tutto
rispose, tranne la tua voce. Parlami!
Ho errato sulla terra e non ho mai
trovato a te l'uguale. Parlami!
T'ho cercato tra le stelle a vanire,
ho contemplato il cielo inutilmente,
senza trovarti mai. Parlami! Guarda,
i demoni a me attorno hanno pietà
di me che non li temo e ho pietà
per te soltanto. Parlami! Sdegnata,
se vuoi, ma parlami!... Dimmi...
non so che cosa, ma che io ti senta
una volta ancora...



J' suis jaune et triste, hélas!
Elle est ros', gaie et belle!
J’entends mon cœur qui bat,
C'est maman qui m’appelle!

Non, tout l' monde est méchant,
Hors le cœur des couchants,
            Tir-lan-laire!
            Et ma mère,
Et j' veux aller là-bas
Fair' dodo z'avec elle...
Mon cœur bat, bat, bat, bat...
Dis, Maman, tu m'appelles?

Beata ludovica Albertoni - Vous chantez comme un bengali
Un bengali bien égoïste
Qui ne veut plus qu’être un artiste
Et tenir le reste en oubli,
Ah ! Triste, triste, triste, triste

T'occupe pas, sois Ton Regard,
Et sois l'âme qui s'exécute ;
Tu fournis la matière brute,
Je me charge de l'œuvre d'art.
Accidenti ai quattrini! accidenti alla cartaccia moneta: questa orrenda matrigna dell’arte... di tutte le arti ... mestiere infame, questo dell’artista, da sempre, nell’eterno quotidiano della vita invivibile, indissolubilmente coniugato alla piccolo-borghese fatalità del miserabile! Coniugato a tal punto che quest’ultimo, poveraccio spregevole termine potrebbe benissimo sostituire l’altro (cioè quello dell’artista) in un più intransigente dizionario. A un individuo abbiente e rispettabile non verrebbe mai in testa di vivacchiare con ciò che è detto "arte". Arte: il più astruso e stupido tra gli espedienti. Non venitemi per carità a dire che si frequenti un’arte proprio perché stregati dalla implicita stupidità.  No, non è così. Chiunque è in grado d’essere un idiota restandosene quieto e scioperato. Che mai patologia perversa costringe il miserabile a consegnarsi ai voti claustrali delle Muse ... A chiodarsi all’infamia della crocetta estetica... Son tante, troppe le motivazioni. E tutte mica tanto decorose, a cominciare dalla vanità esecrabile dello stimolo maternale insensato dis-umano.  Al famigerato ruotare attorno al solito perno dell’esser padre delle proprie opere, farina del suo sacco, parto du sua esclusiva fantasia, intellettiva maternità virile, ecc... ecc... eccetera... Come fosse possibile, scontato, l’essere autori d’un qualche cosa. L’autorialità è un doppio falso: nell’idea che la origina e nell’artificio che quell’idea stravolge, realizzandola.
Un altro impulso alla minacciosa professione estetica è senza dubbio costituito dall’ansia individuale d’esprimersi, cioè manifestarsi attraverso la produzione di materiali eterogenei, infiocchettati, quanto — si crede — basti a suscitare l’emozione spettatoriale (simultanea al configurarsi dell’oggetto bello) e all’attenzione della stima critica... Ma se codesto — chiamiamolo risultato artistico — è così vilmente subordinato al successo decretato dalla visione altrui e all’apprezzamento critico, la fantomatica aristocrazia del simbolico lavoro è degradata a vilissimo posto di lavoro, se non addirittura svergognata a dopo-lavoristico galeotto sollazzo. Senza, per giunta, trascurare il fatto che, sulla scorta insana di eccezionali precedenti illustri, la massa degli addetti all’artificio è spesso incauta vittima di alterazione psichica, stordimento alcolico, narcotico, fino alla più gratuita autodistruzione.
- E adesso Kate, mi dirai il perché
di queste lacrime in cui t'ho trovata
O tu che ieri non mi conoscevi
e che stamane trovi naturale
i miei baci

- Oh, no, mai!

- Seguita, Ofelia, seguita!

- Ma sì, ecco: fu mentre mi vestivo; andavo ripetendo tra me e me il monologo della chiesa, e tutt'a un tratto il cuore mi s'è disciolto di nuovo in lacrime, e mi sono lasciata andar giù sul pavimento. Se tu sapessi che gran cuore ho io! Ah!, non ne posso più di questa esistenza cinica, vuota! Domani pianto tutto, me ne vado, torno a Calais e mi faccio monaca, per dedicarmi ai poveri feriti della guerra dei Cent'anni!

- ... Ma tu credi davvero che davanti al pubblico
d'una capitale, sotto le luci della ribalta
l'effetto sarebbe travolgente...
che la gente per via mi guarderebbe
scioccata dal mio triste portamento?
... E che qualcuno magari s'ammazzerebbe
davanti all'enigma della mia vita?
Sì, pianto tutto anch'io, [sì, ci ameremo,]
ti leggerò tutto, andremo
a vivere a Parigi!

- No, Amleto, no, non fà per me; voglio ritirarmi, farmi monaca, curare i poveri feriti dell'incresciosissima guerra dei cent'anni... E pregare per te!

- Mai Kate, mai! Asciuga te ne prego quei begli occhi interessanti
termina di vestirti. T'amo, t'amo,
e tu mi dirai grazie per questa immensità!
... Cristo!, non ero che uno scolaretto!
Mi mancava la prova della ribalta.
Io non ho ancora dato nemmeno un quarto
di quanto ho dentro... E lei,
com'è sinceramente,
chimericamente bella, lei: quegli occhi suoi che sanno tutto tutto
e a volte niente niente.
Il suo essere è temprato per far cose
di cui si parlerà tra un millennio.
Ci capiamo, noi due, faremo colpo.
Come Ofelia, ha quell'aria formalista
ma che la mette in forma lei: sì, voglio amarti
tutta la vita!

[- Effettivamente, non sono poi tanto male.
M'insegnerai a conoscermi a fondo.
Io sono così idonea a essere plasmata!]
Posso darti del tu?
Quando alla dissennata volontà d’esprimersi si coniuga il tarlo ambizioso della comunicazione, ecco instaurato il circolo vizioso dell’estetica contemporanea: estenuante ricerca di un uditorio convocato a subire tanto insistente esibizionismo. La storia dell'arte, salvo rarissime eccezioni che la eccedono, appunto, è una routine consolatoria e decorativa. E qui nessuno ha voglia d’essere consolato. Anzi, intende restare inconsolabile. Decoro e non décor. Non è qui il caso di commiserare ancora la malafede dell’usurata vocazione al bello, o al bello-brutto che sia, perché qualsiasi scappatella estetica, qualunque impresa artistoide è già ideologicamente condizionata dal pre-concetto del bello in sé. Altro che scelta e libertà espressiva! L’intento è già esitato.
L’arte come servizio sociale... ma è un servirsi degli altri al solo scopo d’uno sfrontato personalissimo tornaconto nel riconoscimento pubblico. Già, il riconoscimento pubblico. Artisti (miserabili) e relativi (miserabili) fruitori. Lo schizzinoso, platonico "distinguo" tra originali, simulacri e copie: riflesso innumere di replicanti: genia clonata. Eh! L’arte!... rompicapo demenziale nel de-cretino favoreggiamento d’ogni ministero dei beni culturali, istituito a vezzeggiare le morte croste d'autore, al solo scopo di scongiurare la vertigine del presente impensato della vita, ad arrangiare lager museali per turisti che abusano del proprio tempo incomprensibilmente libero. Vediamo d’uscirne evitando inutili gineprai. Tutto il falso problema della produzione aristica è sempre questo pervenire a questa o a quella forma e comunque, solamente a una forma (identificata al suo contenuto); ma questa forma è nient’altro che una traccia residuale di un chissà che altrove, tuttavia, inespresso e puntualmente tollerato e spacciato dall’artista. Che fare? È chiaro, quanto meno nell’intento e nel metodo: bisogna eccedere le forme. Una sottrazione, questa: che si può ottenere anche tramite un sistema additivo, evitando insulsaggini come il quadro bianco, il teatro nel teatro, la musica fortuita, ecc... ecc... eccetera... Una sensazione, non è forse questo l’unico auspicabile riconoscimento d’ogni prodotto estetico?... Una sensazione incorpora tutti i nostri sensi e ciò mi suggerisce la figura d’un artefice che, attendendo a un’opera, vi proceda con il concorso d’ogni artificio disciplinare, rifiutando qualsivoglia specifico d'arte.
Così operando (nel senso, appunto, chirurgico d’un coroner), evita di scempiare il suo oggetto-cadavere, amputandolo di questo o di quell’organo. E proprio in questa apprensione quasi tensione interdisciplinare, merita a questo artefice la sacrosanta indisciplina, rigorosissima indisciplina, la grazia, insomma che, sola, ultracosciente necessità, lo affranca dalla penosa individuabilità che contrassegna il genere specifico dell’artista. Quando ci si dice: "io non sono pittore, è allora che bisogna dipingere" (Van Gogh). Né pittore, né musico, né letterato, attore, ecc... È questa estrema, totalizzante, globalità d'artefice a spacciare qualunque relatività d'artista, decretando anche il tramonto definitivo della critica settoriale. Ecceduta l’arte — della Storia dell’arte! — è finalmente vanificato ogni imbellettamento critico dell’esistenza.
Un cuore e basta e degli sguardi senza le smanie della conquista. Sono così estenuato d'arte, questo ripetermi. Che mal di testa!
Sì, come ho detto altrove a proposito della voce (fonesi scritta e orale), della voce variopinta nei pittogrammi della scrittura, è visibile anche tantissima musica (eccettuata la schopenhaueriana volontà cieca in Rossini). Mi fastidia, soprattutto nello specifico delle arti visive, questa volgarità dell’immagine come mediazione, come tara ereditaria delle categorie ontologico-linguistiche del pensiero. La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino, talvolta, a bruciare e calpestare la pellicola. M’è riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico. Questa mia fobia dell’immagine non è iconoclastia fine a sé stessa; l’ho dimostrato in scena eccedendo il teatrino del testo, fino a separare il teatro dello spettacolo, così come nella teoria della crudeltà di Antonin Artaud, quel che conta nell’arte non è il prodotto artistico, ma il prodursi dell’artefice in rapporto al quale (qui Jacques Derrida è impeccabile!) l’opera non è che una ricaduta residuale, un escremento (nell’etimo: ciò che si separa e cade dall’organismo vivente, dalla vita). L’arte è la vita come irripetibilità dell'evento, vivente una volta sola. E perciò l’opera è il materiale morto, è il cadavere evacuato dall’evento. Il destino d’ogni opera d’arte non è nell’opera. È arte all'opera, è il prodursi dell’artista che trascende l’opera, è la sensazione che ci investe davanti alle tele di Francis Bacon. Un genio è soprattutto colui che eccede le sue opere. L’atto dell’esecuzione artistica è più determinante dell’opera esitata. E qui cito ancora Derrida alla lettera: Il genio lascia delle tracce, delle opere, dei residui, ma quanto è veramente geniale e artistico si trova nel ductus, nel gesto della firma, più che in ciò che resta della firma. Da qui, ogni arte sarebbe senza opera e, forse, senza artisti. Ormai ridotta a una sorta di collage di massa, qualunque impresa artistica ha la sorte che merita: dall’evasione dalla vita alla labirintite intellettuale, dalla reiterazione del teatro totale wagneriano alle traveggole del multimediale, dalla volubile gratificazione del mercato alla burocrazia della committenza democratica. L’artefice non è mai autore d’una propria opera. È di per sé, semmai, un capolavoro vivente.
Oh quest'ora fugace...
Ah ritrovare il modo
di restar così in vena
per l'autunno che viene...

Perché non son caduto ai tuoi ginocchi
Perché non sei svenuta ai miei piedi
Sarei stato il modello degli sposi
come il frou-frou della tua veste
è il modello dei frou-frou

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