Momento 4° Parlami! Ti ho invocato nelle nottiAccidenti ai quattrini! accidenti alla cartaccia moneta: questa orrenda matrigna dell’arte... di tutte le arti ... mestiere infame, questo dell’artista, da sempre, nell’eterno quotidiano della vita invivibile, indissolubilmente coniugato alla piccolo-borghese fatalità del miserabile! Coniugato a tal punto che quest’ultimo, poveraccio spregevole termine potrebbe benissimo sostituire l’altro (cioè quello dell’artista) in un più intransigente dizionario. A un individuo abbiente e rispettabile non verrebbe mai in testa di vivacchiare con ciò che è detto "arte". Arte: il più astruso e stupido tra gli espedienti. Non venitemi per carità a dire che si frequenti un’arte proprio perché stregati dalla implicita stupidità. No, non è così. Chiunque è in grado d’essere un idiota restandosene quieto e scioperato. Che mai patologia perversa costringe il miserabile a consegnarsi ai voti claustrali delle Muse ... A chiodarsi all’infamia della crocetta estetica... Son tante, troppe le motivazioni. E tutte mica tanto decorose, a cominciare dalla vanità esecrabile dello stimolo maternale insensato dis-umano. Al famigerato ruotare attorno al solito perno dell’esser padre delle proprie opere, farina del suo sacco, parto du sua esclusiva fantasia, intellettiva maternità virile, ecc... ecc... eccetera... Come fosse possibile, scontato, l’essere autori d’un qualche cosa. L’autorialità è un doppio falso: nell’idea che la origina e nell’artificio che quell’idea stravolge, realizzandola. Un altro impulso alla minacciosa professione estetica è senza dubbio costituito dall’ansia individuale d’esprimersi, cioè manifestarsi attraverso la produzione di materiali eterogenei, infiocchettati, quanto — si crede — basti a suscitare l’emozione spettatoriale (simultanea al configurarsi dell’oggetto bello) e all’attenzione della stima critica... Ma se codesto — chiamiamolo risultato artistico — è così vilmente subordinato al successo decretato dalla visione altrui e all’apprezzamento critico, la fantomatica aristocrazia del simbolico lavoro è degradata a vilissimo posto di lavoro, se non addirittura svergognata a dopo-lavoristico galeotto sollazzo. Senza, per giunta, trascurare il fatto che, sulla scorta insana di eccezionali precedenti illustri, la massa degli addetti all’artificio è spesso incauta vittima di alterazione psichica, stordimento alcolico, narcotico, fino alla più gratuita autodistruzione. - E adesso Kate, mi dirai il perchéQuando alla dissennata volontà d’esprimersi si coniuga il tarlo ambizioso della comunicazione, ecco instaurato il circolo vizioso dell’estetica contemporanea: estenuante ricerca di un uditorio convocato a subire tanto insistente esibizionismo. La storia dell'arte, salvo rarissime eccezioni che la eccedono, appunto, è una routine consolatoria e decorativa. E qui nessuno ha voglia d’essere consolato. Anzi, intende restare inconsolabile. Decoro e non décor. Non è qui il caso di commiserare ancora la malafede dell’usurata vocazione al bello, o al bello-brutto che sia, perché qualsiasi scappatella estetica, qualunque impresa artistoide è già ideologicamente condizionata dal pre-concetto del bello in sé. Altro che scelta e libertà espressiva! L’intento è già esitato. L’arte come servizio sociale... ma è un servirsi degli altri al solo scopo d’uno sfrontato personalissimo tornaconto nel riconoscimento pubblico. Già, il riconoscimento pubblico. Artisti (miserabili) e relativi (miserabili) fruitori. Lo schizzinoso, platonico "distinguo" tra originali, simulacri e copie: riflesso innumere di replicanti: genia clonata. Eh! L’arte!... rompicapo demenziale nel de-cretino favoreggiamento d’ogni ministero dei beni culturali, istituito a vezzeggiare le morte croste d'autore, al solo scopo di scongiurare la vertigine del presente impensato della vita, ad arrangiare lager museali per turisti che abusano del proprio tempo incomprensibilmente libero. Vediamo d’uscirne evitando inutili gineprai. Tutto il falso problema della produzione aristica è sempre questo pervenire a questa o a quella forma e comunque, solamente a una forma (identificata al suo contenuto); ma questa forma è nient’altro che una traccia residuale di un chissà che altrove, tuttavia, inespresso e puntualmente tollerato e spacciato dall’artista. Che fare? È chiaro, quanto meno nell’intento e nel metodo: bisogna eccedere le forme. Una sottrazione, questa: che si può ottenere anche tramite un sistema additivo, evitando insulsaggini come il quadro bianco, il teatro nel teatro, la musica fortuita, ecc... ecc... eccetera... Una sensazione, non è forse questo l’unico auspicabile riconoscimento d’ogni prodotto estetico?... Una sensazione incorpora tutti i nostri sensi e ciò mi suggerisce la figura d’un artefice che, attendendo a un’opera, vi proceda con il concorso d’ogni artificio disciplinare, rifiutando qualsivoglia specifico d'arte. Così operando (nel senso, appunto, chirurgico d’un coroner), evita di scempiare il suo oggetto-cadavere, amputandolo di questo o di quell’organo. E proprio in questa apprensione quasi tensione interdisciplinare, merita a questo artefice la sacrosanta indisciplina, rigorosissima indisciplina, la grazia, insomma che, sola, ultracosciente necessità, lo affranca dalla penosa individuabilità che contrassegna il genere specifico dell’artista. Quando ci si dice: "io non sono pittore, è allora che bisogna dipingere" (Van Gogh). Né pittore, né musico, né letterato, attore, ecc... È questa estrema, totalizzante, globalità d'artefice a spacciare qualunque relatività d'artista, decretando anche il tramonto definitivo della critica settoriale. Ecceduta l’arte — della Storia dell’arte! — è finalmente vanificato ogni imbellettamento critico dell’esistenza. Un cuore e basta e degli sguardi senza le smanie della conquista. Sono così estenuato d'arte, questo ripetermi. Che mal di testa!Sì, come ho detto altrove a proposito della voce (fonesi scritta e orale), della voce variopinta nei pittogrammi della scrittura, è visibile anche tantissima musica (eccettuata la schopenhaueriana volontà cieca in Rossini). Mi fastidia, soprattutto nello specifico delle arti visive, questa volgarità dell’immagine come mediazione, come tara ereditaria delle categorie ontologico-linguistiche del pensiero. La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino, talvolta, a bruciare e calpestare la pellicola. M’è riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico. Questa mia fobia dell’immagine non è iconoclastia fine a sé stessa; l’ho dimostrato in scena eccedendo il teatrino del testo, fino a separare il teatro dello spettacolo, così come nella teoria della crudeltà di Antonin Artaud, quel che conta nell’arte non è il prodotto artistico, ma il prodursi dell’artefice in rapporto al quale (qui Jacques Derrida è impeccabile!) l’opera non è che una ricaduta residuale, un escremento (nell’etimo: ciò che si separa e cade dall’organismo vivente, dalla vita). L’arte è la vita come irripetibilità dell'evento, vivente una volta sola. E perciò l’opera è il materiale morto, è il cadavere evacuato dall’evento. Il destino d’ogni opera d’arte non è nell’opera. È arte all'opera, è il prodursi dell’artista che trascende l’opera, è la sensazione che ci investe davanti alle tele di Francis Bacon. Un genio è soprattutto colui che eccede le sue opere. L’atto dell’esecuzione artistica è più determinante dell’opera esitata. E qui cito ancora Derrida alla lettera: Il genio lascia delle tracce, delle opere, dei residui, ma quanto è veramente geniale e artistico si trova nel ductus, nel gesto della firma, più che in ciò che resta della firma. Da qui, ogni arte sarebbe senza opera e, forse, senza artisti. Ormai ridotta a una sorta di collage di massa, qualunque impresa artistica ha la sorte che merita: dall’evasione dalla vita alla labirintite intellettuale, dalla reiterazione del teatro totale wagneriano alle traveggole del multimediale, dalla volubile gratificazione del mercato alla burocrazia della committenza democratica. L’artefice non è mai autore d’una propria opera. È di per sé, semmai, un capolavoro vivente. Oh quest'ora fugace... |
mercoledì 26 dicembre 2012
Quattro momenti su tutto il nulla: l'arte
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