domenica 20 gennaio 2013

Quattro momenti su tutto il nulla - l'Eros

Momento 3°

Parlami! Ti ho invocato nelle notti
serene, ho spaventato gli uccelli
addormentati tra i silenziosi rami,
per chiamare te...
Ho risvegliato i lupi montani
ho appreso alla caverne a riecheggiare
invano il nome tuo adorato; tutto
rispose, tranne la tua voce. Parlami!
Ho errato sulla terra e non ho mai
trovato a te l'uguale. Parlami!
T'ho cercato tra le stelle a vanire,
ho contemplato il cielo inutilmente,
senza trovarti mai. Parlami! Guarda,
i demoni a me attorno hanno pietà
di me che non li temo e ho pietà
per te soltanto. Parlami! Sdegnata,
se vuoi, ma parlami!... Dimmi...
non so che cosa, ma che io ti senta
una volta ancora...



Lady Macbeth - Quello che li ha ubriacati mi fà audace
Che li ha spenti mi accende Questo grido
È la civetta foriera di morte
che dà la più sinistra buonanotte
Egli è là Son dischiuse le porte
Sazi russano i servi beffandosi
della consegna Le bevande loro
ho drogato così che vita e morte
se li contendono...

[Macbeth - Chi va là Cos'è

Lady Macbeth - Temo si  sveglino... E non ha finito
È il tentativo Non l'atto a perderci
I pugnali son pronti all'evidenza
Deve averli veduti Non avesse
somigliato mio padre nel suo sonno
L'avrei fatto io stessa... ] Macbeeeeth!

Macbeth - Fatto (!)
Tristo, tristo - nevvero? - codesto metalogico dettato sulla miseria della scontenta irrequietudine dell’amore. Groddrek precisa essere la copula un surrogato della masturbazione, e non viceversa. E altrove - cito come a memoria - "che cos'è un piacere se non un eccitamento del senso di potenza attraverso un ostacolo che in tal modo lo fa gonfiare?" Dunque, ogni piacere contiene anche dolore. Schopenhauer è solare quando afferma che il sospirare degli innamorati altro non è che il sospiro della specie: il vagito della specie. Gli amanti giovanissimi e decrepiti inghirlandano le mani intrecciate stupidissimamente fissandosi nelle finestrelle chiuse degli occhi e sofferenti smaniosi, paiono lamentarsi d’esser loro quei due nel chissà dove, ed emettono suoni che se fossero in sé non ascriverebbero senz’altro alla propria fonatoria emissione. Macché, posseduti e stregati da una sorta di arrogante dualità irresponsabile, non indagano a fondo sulla qualità timbrica e tanto meno sulla estraneità di quelle voci, di fuori appunto, che certamente non possono davvero appartenere al nulla in fregola che reclama - è assurdo - la sua urgenza di essere messo al mondo. Questi vagiti, suoni, sono del via col vento e basta, di quei due che già in anticipo soffrono il marcio della procreazione, cui sono condannati; doglie del parto, e stolide strazianti astanterie paterne nelle cliniche. "Gaude il terzio, che no". E non è davvero il buon Dio che certamente non se la sente d’esistere apposta per questo, per combinare scappatelle abortite, indaffarato semmai a rigenerare sé stesso da sé stesso, in quella sua eternità del fuori tema. Poveri poveri, poveri innamorati!... subiscono la sorte dei due termini nella proposizione grammaticale, congiunti da una copula, rovesciando questa proposizione nella vita vissuta. Ogni maschio in amore, a ben pensarci, meriterebbe la castrazione inflitta ad Abelardo, ridimensionato dal suo furore linguistico a canzonettista erotico, da medioeval-modista a Farinelli. Leggiamo un breve passo de 'l mal de' fiori il poema che mi ha scritto l’altr’anno, una pagina in che il corpo affaticato dalla copula, se ne lamenta...
Anzi ch’è fotta ’l cordelcorp me ’l dice
ahi! me fa mal al mal
st’eriticazzamor ch’heros vu’ dite
de ’mmassar a che pro s’istessi semper
vo’ du ‘sassin de novo ve ristate
spectaculo deforme accominciar l’etern
tristo ’rotico che
m’envolve stracc
fa me viver sta mor
Il cor m ’l dise ‘nzogno der tremoto
che me scerpa tra un momentin o dò la serà strizza
stacarndeporc
sudada ’n la stasir Ahi ahi ve ’nploro
dice ’l cor me ’scoltate
El paradiso è star
comme se fusse no
Nella frenesia dell’amplesso sciagurato è il corpo, e solo il corpo, ad accusare lo stress di ogni frequentazione amorosa. Ahi l’amore, l’amore facchino!... è costante refrain ne 'l mal de' fiori. E il corpo che, potendo, chiederebbe soltanto di essere disindividuato, invocherebbe una tregua alla erotomane frequentazione ignara, dal momento - Deleuze - che "noi siamo" e non "abbiamo un corpo", anche esso vittima del linguaggio. Questo corpo non è strumento neutro, è un oggetto balocco del pensiero, è un insaccato di nervi ed ossa, di muscoli e di carne, carne senza concetto, appunto, privo di volontà come di voglie - (sensazioni, gusto, visione, udito, olfatto) e in balia del nevrasse che lo asserve, animandolo a proprio talentaccio e dispiacere. Tristi prerogative delle mente che, guarda caso, nel suo inconscio, in fondo ad altro non ambisce che a smentirsi, farsi corpo cadavere, regredire all’inorganico, a una pietra, a quel non essere mai stata. Nostalgia delle cose che non sono! E l’abbraccio, l’abbraccio degli amanti, non evidenzia forse il modo e il mezzo di evitare un viso a viso intollerabile?
Bracciaperte ‘n la croce addùa innervata
in coesa ruina eros vinghia inimica
carne ‘n la febbre ìssima L’abbraccio
indù ‘n che tremulo
bronzo è fuso siccome ‘n cera molle
di sagoma ch’è una Visavviso
solo inviso è l’amor d’amor irriso
in franto specchio ‘stretto a no vedersi
got ’ a ganascia stagna ch’è reclina
’stringe amor a evitarsi ’n visavviso
che non più mai si sdua ’Stringe a nientar
i ’nnamorati vólti
vòlti a si star sconoscersi scordar
che s’era imprima
ne la distanza breve di due passi

È ’l sogno che vanisce negli amanti
da gli amici acclamati
ne’ convegni d’amor che fai stasera?
- Niente ti chiamo ci vediamo troppo
se di lontano certo
dove vuoi gli occhi chiusi ci vediamo
a più non esserci
com’era prima quando noi non s’era
Nell’equivoco erotico, siccome nel delitto il più perfetto, si copula e si uccide soprattutto perché si sappia, se no equivarrebbe alla recita di due attori senza pubblico.
Ruotano inverse stupide su ’l ghiaccio
ai bordi de’ morosi le figure
d’erosfoia ’mbestiate a pena schiuse
se pur ansanti ’nfuriano a sfogliarsi
de l’incomode ’n bello vest ’n ferro
Dorsaddorso violetti ’n po s’ingrugnano
in tra se de ’l peccato questo ’l solo
non esservi presente un qualche amico
fido a testimoniar di loro gesta
chè l’ammore è traruto Ddoie se vonno bene
e nisciuno c’ ’o dice a nisciuno
Nun è cosa Cuntento nun si’
Il reo non s’appaga d’aver commesso il fattaccio ma, arrogatasi la pretesa paternità della colpa, reclama il proprio nome in locandina, è sempre confesso. In un delizioso raccontino di Edgard Allan Poe, il genio della perversità, un impeccabile austero docente di frenologia, coincide coll’assassino, autore di un delitto perfetto, meditato per settimane e mesi. "Sono al sicuro, sono al sicuro, sono al sicuro", si ripete; questa tanto piacevole sensazione si converte via via in una giaculatoria da incubo: "sono al sicuro, sono al sicuro, sono al sicuro, si... a meno che... a meno che, non sia così cretino da farne io stesso completa confessione". E difatti lo grida ai quattro venti. Se non esisti, sei autore responsabile di un bel niente, e tuttavia sei condannato a dirlo, questo niente. È così che attorno a un crimine si apre sempre un’affollatissima asta di candidature estranee al fatto, di gente già pentita di non averlo commesso. Si uccide appunto per poterlo raccontare. Al di là di ogni principio di piacere, l’assassino cede comunque alla tentazione dell’asino, recitare da asino, per essere attendibile come assassino. Un delitto inconfessato è un delitto mai accaduto. Il geniale cretino perverso, fa di tutto perché lo si sospetti, la sua vanità ha requie solo una volta per tutte se riconosciuto, a costo della galera e del patibolo. “Ah, non volerti misera, non deve specchiarsi in te la povertà dell'amore” (Friedrich Holderlin).
Questo dramma per me non è nulla.
L'ho concepito e vi ho lavorato fra
repellenti preoccupazioni domestiche.
[...]
Ti ricordi Una volta eri solo
ti svegliavi Prendevi il caffè
nella stanza disfatta
senza fare toelette
Ti rovesciavi sulla tua poltrona
Soffocato di noia Sognavi
guardando il letto Una
che m'adorasse
L'uno per l'altro insieme
Lei sola al mondo

S'alzerebbe sbiancata
Si darebbe d'attorno

Mi occuperei della sua toelette
L'asciugherei
Pettinerei senza farle male
Le allaccerei il corsetto
La vestirei di chiaro
Da gita in barca

E sognerei sì che una volta laggiù
Invece di goderne
sognerei finalmente d'esser solo

Solo Prendere un treno
Ritrovare gli amici i caffè
Osservare i passanti
Perso... Perso...
Se amore nel suo scontro irreciproco, cioè la copula, squassa, delude, annienta i corpi stracci dei due vanamanti, si mostra ancora più spietato nell’esercizio della finamor, quest’eufemismo scellerato, se nella filologia romanza trobadorica, e tanto peggio detto appunto, amor cortese. Dove la sospensione categorica dell’erotismo fisico, è prescritta in ogni sua declinazione, ritualmente soppiantata dall’insistito unilaterale corteggiamento in voce, privilegio patronale esclusivo del cavaliere amante. Bell’espediente questo che risparmiava al maschio le fatiche del coito trasudato, fastidiando - e non poco! - la dama tramutata in mero ascolto, letteralmente trascurata nelle sue più naturali esigenze fisiologiche, così ferocemente frastornata dalla tetragona devozione lirica tributatale. E non finisce qui, che se la malcapitata castellana si sottraeva a tanta s-cortesia innamorata, ecco che il suo signore trasumanava in madonna, quel suo fin lì profano oggetto erotico. Ormai così incolmabile la distanza, campato il tutto in aria, come tra cielo e terra, questi signori dell’amor parlato, inalberati a cavallo con tra le mani tanto di specchio, preferivano farsi crociati, piuttosto che restar lì a starsene zitti. Meglio votati ai rischi del divino amore, che rifiutati servi dell’amor parlato. E nella grande mistica, l’amore per il prossimo è comunque associato a una forma di irrequietudine peccaminosa. L’amor sospetto in Angela da Foligno è in Maddalena dei Pazzi addirittura elevato all’amor morto, e per di più riferito a Dio.
L’ultimo amore è l’amore morto, il quale non desidera non vuole, non brama e non cerca cosa nessuna, perocché l’anima che possiede questo amore, per la morta relassazione che ha fatta di sé in Dio, non desidera conoscerlo, intenderlo, né gustarlo, nulla vuole, nulla sa e nulla vuole potere vivendo al tutto siccome morta.
L’eros facchino ha tregua nel suo rovescio costituito dal porno che, per sgomberare il campo dagli equivoci, sarà preferibile definire o-sceno, dall’etimo fuori-scena. L’osceno è, per definizione, l’eccesso del desiderio, una volta s'intende sacrificato, svilito, immolato, Eros.
siccome e’ gira gira ferma qui a noi d’accanto
su ’l perno ’l suo ’na giostra
di ciuchi ’n cartapesta che si dondolano
immoti e vanno vanno
’n chissaddove infanzia
lontanata del vano
suo non più che fu mai
’me stanno stanno e vanno
mai dipartiti ’n non tornar mai più
È quando pur muovendosi si sta, annichilito come l’amore morto, il - tra virgolette - rapporto osceno, è la relazione mancata tra soggetto e oggetto, è l’orgasmo non sollecitato da nessun desiderio, da nessun vitalismo, voglia. Prerogative dell’ansia erotica queste, nella irreciproca situazione oscena, i corpi se ne stanno come cose, oggettità pietrificata, ma presente alla mente come un altrove, una irriflessa sovra-coscienza incantata; le posture, i gesti somigliano, le smorfie involontarie, come evocate da una meccanica automatica, come se qualsivoglia occasione porno fosse spiata da un occhio estraneo, intestimoniabile, assolutamente altro dall’orgasmo proprio delle estasi mistiche, di cui il soggetto oggetto sa un bel niente, mai presente a se stesso nel suo oblio. Il non amore osceno somiglia il ricordare le cose che non sono, le cose sole, queste, indimenticabili.
Siamo fuor del marcire dentro un sacco
morente assenza Resti
di che mai fu In provincia
la stessa che ritorna tourne à naître
in tour-nées poveri guitti
babalbutiti ’n vuota scena da
nostradonnamaria insignificanza indove
ce ne no stiamo più non stiamo e t’amo ’n letto
’me se d’altrui cadaveri ’nventato

L’hanno portato via l’hanno portato
chi l’aveva una volta mai l’amata
se non a mo’ di tazza sul comò
tepida oscena dura a mo’ di smalto
busto tronco sensuato ’me di bambola
educato ’n androide sì così
si sta in così ecce femina ch’è no

Distaccata ’me pronta lontanata chissà
per s’avvicina l’altra mano toccami
qui dove più non duole
il no del corpo star in fare il morto
Che ragazza e ragazza! È cosa spoglia
nella sera dall’ombra carezzata
ne la carezza ombrata da la notte
in dell’incanto sole del meriggio
domestico claustrato d’arabeschi
divini evanescenti alle marine
pareti della stanza ’n divenir

Che ragazza e ragazza! sperso arredo ’n dettagli
in apparir disparso dentro vano
che d’intimo discreto in m’hai scordata
L’hanno portata via l’hanno portata
’me il tutto ch’è mai stato e poi finì.

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