domenica 29 novembre 2009

Se la carne immane more

     Se la carne immane more
del non so perché t'adiri
'me che di bambole s'ingombra
il tempo che non sai.

'me che dei tuoi riderai
non ti sarà albergo, placentata
istoria, scolpita come fosse polver d'ossa,
scarnificate... una miseria.

M'hai colmato i giorni di sospiri, tu
che raccolta dannata a' rimpianti celi
e non m'occorre 'l tempo che al vuoto
mi precipita. S'alza in alto ancora
come nuvola un gemito dal suo giacere in gola,
sì, ma in quali strali espanso al ridere mi proibì
non so, che di me non sai più che t'inventare.
E se m'hai cercato in morte le tue labbra,
avvinte, soltanto perdersi di lor parole.

S'alberga al cuore un ombra; cara, se'
germana, inusitata speme, giovenile ardore.
Sei tu un ricordo solo
che all'appressar m'aucidi.
Di', ché m'abbandoni e te ne vai
'me la mi vita che più non abbonda
e che tende mani in supplichevol pièta 
all'esile promessa di quel volo.
Senz'ali cadere giù e d'isfracellarsi
sente già l'appressarsi, sulla soglia
impietra, vittima in tramutarsi oro, in altro
o fors' è soltanto abbaglio sotto 'l sole; 
d'ira, lussuria, febbre, ebrezza, cui Icaro
figlio luminoso si travaglia
spaura e maraviglia nell'attesa.
Di quel volo ignaro ciò che un giorno t'era
ormai se' diventato già soltanto sera.

il cannocchiale

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